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Il g20 economico e le sfide cui è chiamata l’Europa

 
Francesco Giorgino

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Francesco Giorgino

Il g20 economico e le sfide cui è chiamata l’Europa

Opportunità e criticità dell’attuale situazione economica. Il G20 dei Ministri delle Finanze, riunitosi nel week end a Buenos Aires, in Argentina, si è mosso all’interno del perimetro di questa polarizzazione.

Lunedì 23 Luglio 2018, 19:54

Opportunità e criticità dell’attuale situazione economica. Il G20 dei Ministri delle Finanze, riunitosi nel week end a Buenos Aires, in Argentina, si è mosso all’interno del perimetro di questa polarizzazione. Si è confrontato con l’esigenza di un’analisi realistica delle conseguenze sull’economia mondiale delle guerre commerciali avviate dal presidente americano Donald Trump contro le rivali Cina ed Europa. La partecipazione al summit anche dei Governatori di quattordici Banche Centrali e dei Rappresentanti di dieci Organizzazioni Internazionali ha spinto la discussione verso un quadro più ampio ed articolato, in cui aspetti commerciali si sono fusi ad aspetti monetari e politici.

Avendo pesato fin dall’inizio il fallimento del recente G7 in Canada, nelle giornate argentine ha prevalso la necessità di fare il punto soprattutto sui rischi connessi alle crescenti debolezze finanziarie, alle tensioni internazionali, agli squilibri e alle disuguaglianze presenti nel pianeta. In questo quadro c’è stata una questione principale, che è quella del rapporto fra Stati Uniti e Cina, e molte questioni solo in apparenza secondarie, come gli sviluppi delle relazioni fra Usa ed Europa e fra Bruxelles e Pechino. La logica America first ha portato Trump a rifugiarsi dentro lo schema del protezionismo per difendersi da quella che egli definisce l’aggressione dell’Estremo Oriente. In verità, nel mirino americano c’è anche l’Europa, accusata insieme alla Cina di aver fatto ricorso a manovre di “manipolazione della valuta” per deprezzare le rispettive monete e favorire le esportazioni, provando così a neutralizzare le conseguenze dei dazi americani. Trump ha ricordato in una recentissima intervista alla Cnbc che gli Usa hanno 507 miliardi di deficit con la Cina e che l’America si sente così sfruttata da essere pronta a mettere dazi su 500 miliardi di dollari di merci. È di 151 miliardi, invece, il deficit con la Ue. Il presidente americano ha rilanciato l’ipotesi di dazi del 20-25% sull’automotive d’importazione.

Una partita difficile quella che si è aperta. In ballo c’è anche la reale autonomia ed indipendenza della Fed e delle Banche centrali. Una cosa è certa: aprire una guerra delle valute dopo quella commerciale non è soluzione sostenibile a medio e lungo periodo, nemmeno per gli Stati Uniti. A maggior ragione, se è vero quanto sostiene la Lagarde, capo del Fondo Monetario Internazionale, e cioè che è possibile che, come effetto della guerra commerciale, il Pil mondiale si riduca entro il 2020 dello 0,5%. Cifra pari a 430 miliardi di dollari. Il punto, dunque, è proprio quello della valutazione degli impatti di questa situazione da un lato sul quadro macro economico e dall’altro sugli equilibri internazionali. La vicenda dazi è importante non soltanto per le ricadute più squisitamente commerciali, ma anche per quelle politiche. Multilateralismo o unilateralismo? Questa è la domanda di metodo.

Prima dell’arrivo di The Donald alla Casa Bianca nessuno aveva messo in discussione l’orientamento generalizzato di assumere politiche comuni e coordinate, anziché di decidere in solitudine o, tutt’al più, sulla base di rapporti privilegiati con singoli Paesi (bilateralismo). Con la logica disruptive di Trump molto è cambiato, anche per l’oggettiva debolezza dell’Europa e per la riduzione delle stime di crescita del Pil dei tre maggiori Paesi dell’Eurozona: Germania, Francia e Italia. Per quanto riguarda il nostro Paese, fra i più colpiti dalla crisi economica e finanziaria del 2008, va ricordato che solo con una significativa crescita del Pil nominale (ovvero Pil reale + inflazione) sarà possibile ridurre il rapporto debito-prodotto interno lordo. È questo il vero obiettivo, considerata l’importanza attribuita a tale parametro dalle agenzie di rating e dai mercati. Al vertice di Buenos Aires hanno partecipato due italiani, il presidente della Bce Draghi e il ministro Tria, destinatari però di riserve e di qualche critica da parte dei pentastellati, forza trainante della maggioranza gialloverde.
Trump dopodomani incontrerà il Presidente della Commissione Europea Junker. Durante il vertice centrale sarà la questione dell’import ed export di auto, anche se sarà inevitabile un riferimento ai rapporti presenti e futuri fra Stati Uniti e Vecchio Continente. Entra in gioco, perciò, la discussione su come rimuovere le fragilità attuali dell’Unione Europea e come immaginare un futuro diverso, in cui si attenuino le divergenze, si realizzi un’integrazione capace di essere contemporaneamente economica e politica e si contrasti la prospettiva dell’irrilevanza rispetto alla definizione degli scenari internazionali. Le elezioni di primavera 2019 ci forniranno un quadro più chiaro. Sapremo a quale Europa stanno pensando i cittadini degli Stati membri.

Verificheremo come conciliare istanze sovraniste e culture europeiste e come connettere mercato e decisioni politiche. Ieri si è diffusa la notizia che l’ex collaboratore di Trump, Steve Bannon, in risposta alla Open Society di Soros, starebbe pensando ad una formazione denominata The Movement che potrebbe unire tutti i populismi europei con l’intento di creare un blocco unico a Strasburgo. A proposito: i popolari spagnoli hanno svoltato a destra con l’elezione di Pablo Casado. La transizione dalla sfera economica a quella politica deve procedere attraverso l’individuazione di nuovi principi guida e non solo per l’inerzia tipica di quelle fasi storiche contraddistinte da enfasi pragmatica. Occorre definire prospettive altre, ricorrere a chiavi interpretative diverse e a fattori abilitanti che, nel mutato scenario internazionale, diano reale slancio all’Occidente, come ha dimostrato, del resto, la precaria gestione del rapporto con la Russia. L’Europa deve saper agire contemporaneamente sul fronte interno e su quello esterno. Il che vuol dire, sempre che il multilateralismo abbia ancora senso (e secondo noi lo ha), tenere insieme il rapporto con Trump, quello con Putin e quello con Xi Jinping. Un programma ambizioso rispetto al quale l’Italia può fare la sua parte, se solo dimostra di essere capace di allungare e allargare il suo sguardo sul mondo.

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