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«Giustizia, no a riforme spot: serve un ridisegno organico», Fulvia Misserini, presidente Anm Taranto

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

«Giustizia, no a riforme spot: serve un ridisegno organico», Fulvia Misserini, presidente Anm Taranto

«Eliminare o ridurre le intercettazioni vorrebbe dire non perseguire più e dunque punire i delitti gravi»

Giovedì 08 Dicembre 2022, 14:11

TARANTO - «La giustizia italiana avrebbe bisogno di organicità, di sistematicità e non di riforme estemporanee, dettate più dall’esigenza del suo artefice politico di lasciare legato il proprio nome che dalla esigenza di riformare la giustizia».

Fulvia Misserini, magistrato del Tribunale di Taranto e giudice a latere nei processi Scazzi e Ilva, le parole del Guardasigilli Carlo Nordio hanno generato un vespaio di polemiche e reazioni. Partiamo da qui: lei, presidente della sezione Anm di Taranto, che idea si è fatta?

«La mia opinione coincide pienamente con quella di Giuseppe Santalucia, presidente della Anm, che ha definito le parole del ministro Nordio “dure e ingenerose” e, mi permetto di aggiungere, neppure corrispondenti alla realtà normativa attuale: le osservazioni sulla segretezza delle intercettazioni sono state superate dalla recente riforma che prevede un archivio riservato per quelle non utili e non utilizzabili con conseguente divieto di pubblicazione».

Procediamo con ordine. Nordio ha sostenuto di voler ridurre l’utilizzo delle intercettazioni: quali sarebbero le conseguenze secondo lei?

«Il ministro Nordio non ha considerato che la normativa in materia di intercettazioni è stata modificata recentemente anche con la finalità di tutelare maggiormente la riservatezza delle persone coinvolte.Quello che il Guardasigilli non chiarisce è che il nostro sistema è estremamente garantista in tema di intercettazioni: prevede solo quelle su autorizzazione della autorità giudiziaria, essendo precluse le intercettazioni da parte delle forze di polizia come, invece, avviene nei paesi anglosassoni. E poi il numero elevato deriva comunque anche dalla necessità di perseguire delitti di criminalità organizzata.Lo strumento costituito dalle intercettazioni ha una straordinaria portata investigativa che consente di acquisire elementi probatori di formidabile valenza, soprattutto perché chi parla non sa di essere ascoltato. Uno strumento, quindi, che in base alla legislazione italiana, può essere utilizzato solo per reati che sono puniti con pene elevate e che sono posti a presidio di beni giuridici che il legislatore stesso ha ritenuto di tutelare in modo pregnante».

Ridurre l’uso delle intercettazioni, favorirebbe anche la riduzione dei tempi dei processi?

«Assolutamente no. Come dicevo le intercettazioni costituiscono uno strumento straordinario di acquisizione di elementi probatori, perché consentono di raccogliere dichiarazioni genuine da parte dei soggetti ignari di essere intercettati, ma eliminarle o ridurne il loro utilizzo significherebbe rinunciare a perseguire e a punire delitti gravi e quindi a tutelare beni giuridici considerati importanti dal legislatore stesso. Ricordo che allo stato della legislazione le intercettazioni possono essere disposte soltanto per reati che sono puniti con una pena superiore a 5 anni di reclusione. Se rinunciare a punire certi reati significa accelerare i tempi della giustizia, allora la risposta alla sua domanda può essere affermativa».

E allora cosa serve in concreto perché i processi penali e civili in Italia si chiuda no più velocemente?

«Sia attraverso le norme sul Pnrr che con la riforma Cartabia, sono numerosi gli interventi per accelerare la risposta giudiziaria alle istanze dei cittadini. Il rischio è quello di confondere velocità con efficienza a scapito della qualità e della correttezza, in termini di giustizia, della decisione. Quello che manca sono ancora una volta le risorse umane: i magistrati e il personale amministrativo e le strutture. In realtà per i magistrati, la riforma Cartabia ha riportato il concorso al primo grado: un ritorno al passato che dovrebbe ridurre i tempi di accesso alla magistratura. Il Pnrr ha visto invece incrementare l’organico amministrativo. Ora non resta che aspettare il naturale decorso del tempo per verificare se questi rimedi siano o meno stati sufficienti. Poco, invece, ancora, si registra sotto il profilo degli strumenti: mi riferisco ad esempio alle forniture informatiche non sempre tempestive e adeguate e alle strutture per la questione della edilizia giudiziaria».

E la separazione delle carriere? Perché la politica ritiene che sia necessaria?

«La separazione delle carriere costituirebbe davvero un vulnus pericoloso per quella figura del pubblico ministero che è stata delineata dal legislatore costituente. L’unitarietà delle carriere, prevista nella nostra Costituzione, deve essere intesa come un presidio di legalità. Il Pm è il primo “giudice” che il cittadino-indagato incontra nel percorso investigativo e che gli garantisce il rispetto di ogni regola posta dall’ordinamento. A sua tutela. Anche nella raccolta degli elementi investigativi a carico e a discarico. Immaginate come sarebbe finito il caso Cucchi se non vi fosse stato un pubblico ministero-giudice?La “politica”, come dice lei, propaganda la separazione delle carriere come espressione di un principio di liberalità: in realtà sarebbe un grande passo indietro in termini di garanzie. La politica, soprattutto, non considera che, in particolare dopo la riforma Cartabia, i magistrati hanno una sola possibilità nella intera vita professionale di passare da una carriera all’altra. E per giunta può essere fatta solo nei primi anni di carriera: quindi le carriere sono già separate in modo irreversibile».

Anche la figura del pubblico ministero potrebbe essere stravolta da un approccio come quello paventato dal Guardasigilli: perché eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale rischia di mettere l’inquirente al servizio della politica?

«Guardi, l’obbligatorietà dell’azione penale è prevista dalla nostra Costituzione. Previsione, aggiungo, che consente un controllo diffuso e quindi democratico di legalità. Eliminarla significherebbe davvero incidere negativamente sulla struttura democratica del Paese».

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