TARANTO - «La gestione dello stabilimento ILVA di Taranto da parte degli imputati è stata una gestione disastrosa che ha arrecato un gravissimo pericolo per la incolumità - salute pubblica». È quanto si legge nelle 3700 pagine che compongono la motivazione della sentenza con la quale la Corte d’assise di Taranto condannò il 31 maggio 2021 la famiglia di industriali lombardi, la dirigente dell’acciaieria tarantina e poi parte della politica locale e regionale: 22 anni di reclusione a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola, al responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la “longa manus” dei Riva verso istituzioni e politica, una a 21 anni e 6 mesi e 21 all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso.
Condannato anche l’ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, ha ricevuto una pena di 3 anni e 6 mesi, mentre per l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni: era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica. Stessa pena per per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. L’ex consulente della procura Lorenzo Liberti ha ricevuto una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, che aveva annunciato durante il dibattimento di voler rinunciare alla prescrizione e per il quale la procura aveva chiesto 1 anno. Prescritto fu invece dichiarato il reato di favoreggiamento commesso da Nicola Fratoianni, parlamentare di Sinistra Italiana e all’epoca dei fatti assessore regionale nella giunta Vendola: la corte tuttavia lo ha condannato al pagamento delle spese legali nei confronti dei Verdi, partito di Angelo Bonelli con cui oggi ha stretto un’alleanza. Per la corte la gestione dello stabilimento tarantino “che si è concretizzata sia in condotte commissive, operazioni concrete nel ciclo produttivo, sia in condotte omissive, nella massiva attività di sversamento nell'aria - ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale a vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali ed urbunc circostanti lo stesso; in particolarc, IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli ed altre polveri nocive, determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica.
Secondo la Corte d’assise presieduta dal giudice Stefania D’Errico e a latere il giudice estensore Fulvia Misserini, la famiglia Riva e i loro sodali, che hanno gestito l’ex Ilva di Taranto dal 1995 al 2012 “hanno posto in essere modalità gestionali illegali, anche omettendo di adeguare lo stabilimento siderurgico ai sistemi minimi di ambientalizzazione e sicurezza per ovviare alle problematiche di cui avevano piena consapevolezza sin dal 1995”.
Secondo quanto si legge nei 15 capitoli che compongono il documento, i Riva già dal loro sbarco a Taranto conoscevano la realtà della fabbrica e “hanno messo così in pericolo - concreto – la vita e la integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento, la vita e l'integrità fisica degli abitanti del quartiere Tamburi, la vita e la integrità fisica dei cittadini di Taranto.
Danni alla vita e alla integrità fisica che, purtroppo, in molti casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi, alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno. Modalità gestionali che sono andate molto oltre quelle meramente industriali, coinvolgendo a vari livelli tutte le autorità, locali e non, investite di poteri autorizzatori e/o di controllo nei confronti dello stabilimento stesso”. Una motivazione che ha sostanzialmente accolto in ogni punto la tesi del pool di magistrati della procura composto all’epoca dal procuratore Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Raffaele Graziano e Remo Epifani.
Nel documento, inoltre, ha spiegato che la pericolosità delle emissioni dell’Ilva era un “un dato notorio”, riscontrabile dai provvedimenti amministrativi e protocolli di intesa tra i Riva e le istituzioni locali e regionali “che attestano in maniera inequivocabile come gli interventi di ambientalizzazione degli impianti, pur avvertiti come imprescindibili e urgenti, siano stati a lungo procrastinati, con la costante e ingiustificata prevalenza delle ragioni della produzione rispetto a altri valori pur costituzionalmente fondanti del nostro ordinamento”. Uno spostamento avanti nel tempo ottenuto grazie a “connivenze che a vari livelli sono emerse e solo in parte risultano giudizialmente accertate”.