TARANTO - «Questo ragazzo ha vissuto per dieci anni dipinto come un criminale: un assassino, ubriaco e drogato, ma lui è un’altra vittima di questa storia». Il 16 novembre scorso, nell’aula E del tribunale di Taranto, la voce dall’avvocato Gaetano Vitale tuonava di passione e rabbia. A qualche metro da lui, col capo basso, tra i banchi destinati ai detenuti, siede Simone Todaro: ha 28 anni e da quasi dieci vive con l’ombra di aver ucciso un vigile urbano in servizio a causa di una manovra sbagliata. Sullo scranno più alto, la giudice Elvia Di Roma non perde una parola. Poco prima dell’avvocato difensore, aveva parlato il pubblico ministero Rosalba Lopalco: «Non sono emersi elementi che dimostrino la colpevolezza di Todaro e quindi chiedo la sua assoluzione» aveva sostanzialmente concluso il magistrato. Quella richiesta però, non basta a spiegare il calvario vissuto da Simone. Perché anche se è vera, questa storia, sembra la sceneggiatura di un thriller.
Tutto comincia il 23 luglio 2013, quando all’incrocio tra via Ancona e via Lago di Como nel quartiere Salinella di Taranto, l’auto guidata dal giovanissimo Simone si scontra con l’auto di servizio dei vigili urbani condotta dall’agente Angelo Panessa e su cui viaggiavano anche il maresciallo Emanuele Venneri di 62 anni e una collega. L’impatto uccide il maresciallo Venneri, gli altri occupanti dei due veicoli riportano ferite non gravi.
La dinamica ricostruita dopo le prime dichiarazioni rese da Panessa e altri mettono subito sotto accusa Simone: avrebbe passato l’incrocio con il semaforo rosso. E così per la stampa e l’opinione pubblica, Simone diventa un assassino. A questo si aggiungono anche altre informazioni che trapelano nei giorni successivi: Simone era sotto effetto di alcool e droga. Il reato di omicidio stradale non esisteva ancora, altrimenti Simone sarebbe stato arrestato.
Ma quella versione, Simone, l’ha sempre negata. Ha sempre raccontato di aver attraversato col verde. Nessuno gli crede, tranne suo padre Salvatore, ingegnere che comincia a leggere le carte dell’accusa e si accorge che le anomalie non sono poche. Le sue segnalazioni, però, non bastano a evitare un processo per omicidio colposo, in cui è imputato anche Panessa come autista del mezzo. Col passare del tempo, tutto sembra destinato a finire nel peggiore dei modi, ma la svolta arriva in modo sorprendente e coraggioso. Già perché la svolta arriva dal figlio di Emanuele Venneri, il vigile deceduto. Un giorno, mentre è in ospedale incontra un uomo che gli svela qualcosa di incredibile: è il cugino del vigile Panessa e racconta che proprio quest’ultimo gli ha svelato di essere stato lui l’autore della manovra sbagliata. Quell’uomo non lo sa, ma il figlio del vigile Venneri sta registrando tutto: quell’audio finisce in procura e si apre un nuovo capitolo giudiziario. Interrogato dal pm Enrico Bruschi, quell’uomo ritratta tutto dicendo che quel vigile, suo cugino, è innocente. Ma stavolta, la procura ha un quadro più chiaro: Panessa finisce sotto accusa per calunnia nei confronti di Simone per aver dichiarato che era passato con il rosso, anche il cugino deve difendersi dalla stessa accusa. Il loro processo si conclude ben prima di quello nei confronti di Simone: Panessa viene condannato in primo grado a 2 anni di reclusione, ma il reato si prescrive in appello e così la pena svanisce, ma non il risarcimento di 30mila che in brevissimo tempo il vigile versa a Simone. Per il cugino, va decisamente peggio: in primo grado rimedia una condanna a poco più di 3 anni di reclusione.
Gli atti di quel processo, entrano nel dibattimento in un cui è imputato Simone e cominciano a dipingere un quadro nuovo. Nel corso dell’istruttoria, inoltre, l’avvocato Vitale dimostra che Simone quella sera non aveva né bevuto e né fumato: il laboratorio analisi, infatti, aveva fornito un referto minimo e cioè aveva come valore il numero sotto il quale il dispositivo non può scendere. In parole povere, quella sera del 2013, Simone non era sotto l’effetto di alcuna sostanza: né alcolica né stupefacente. Elementi di cui anche la procura prende atto chiedendo infine che il ragazzo venga scagionato. Una settimana più tardi, la giudice Di Roma emette il suo verdetto: Simone è assolto perché il fatto non sussiste. Panessa, invece è stato condannato a 1 anno e 6 mesi di reclusione con pena sospesa. Quasi dieci anni dopo, il calvario è finito: Simone può scacciare i fantasmi e le ombre che hanno aleggiato intorno a lui. E tornare a vivere. Come non ha più fatto da quella sera di luglio.