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Usura a Taranto: processi senza verdetto a dodici anni dalle indagini

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

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Tra i casi più eclatanti c'è l'operazione «Cippone», in piedi da quasi 15 anni

Mercoledì 02 Marzo 2022, 14:15

TARANTO - Processi lunghi, a volte infiniti. Con l'ombra della prescrizione che aleggia e rischia di diventare una beffa per le vittime, ma anche per chi è accusato e non può dimostrare la propria innocenza.
La lunghezza dei processi, anche a Taranto, ha esempi emblematici. Come alcuni processi nati dalle inchieste contro alcuni presunti usurai. Uno di questi è il blitz «Cippone» che vede sotto accusa oltre 30 imputati da oltre dieci anni: all’alba del 29 gennaio 2010 furono arrestati 17 persone, ma le indagini erano partite addirittura nel 2007.


Quasi 15 anni fa insomma. Fu un ristoratore tarantino a presentarsi dai poliziotti e a raccontare coraggiosamente la sua storia. La stessa di tanti altri imprenditori: titolari di concessionarie di auto, ditte di trasporto, bar, imprese edili.
Tutti, a causa di difficoltà economiche, avevano ottenuto prestiti da qualcuno del gruppo e poi era cominciato l’incubo: i tassi applicati dagli imputati, secondo gli inquirenti. Arrivavano anche al 180 per cento all'anno.
Le intercettazioni, i pedinamenti e le altre attività degli investigatori, contribuirono a definire una vera e propria holding dell’usura con compiti ben distribuiti: c’era chi prestava il denaro, chi lo riscuoteva, chi procacciava i clienti e chi, infine, riciclava i soldi, mettendo all'incasso gli assegni rilasciati dagli imprenditori. Ma non è l'unico caso.
Altri due processi sul fenomeno dell'usura a Taranto sembrano essersi impantanati tra i gangli della burocrazia giudiziaria. Il primo fu ribattezzato «Time waster»: in questo caso, secondo l’accusa, i tassi di interesse arrivavano in alcuni casi anche al 270 percento all'anno.


Nel 2016 è iniziato il processo nei confronti di circa 20 presunti usurai, alcuni dei quali insospettabili: un operaio dell'Ilva, un sottufficiale della Marina militare, una commerciante, un ausiliario tecnico-amministrativo di una scuola, un ristoratore e persino una donna che non aveva presentato nemmeno la dichiarazione dei redditi. Una vera e propria «cappa» secondo la procura che pressavano contemporaneamente un impresario tarantino e la sua segretaria.


Da 6 anni, tutti loro – presunte vittime e presunti aguzzini - attendono una sentenza. Tra questi c'era Vincenzo Albano che è coinvolto anche in altro procedimento per usura: gli inquirenti lo ribattezzarono «Operazione palco» perché ritennero che Albano, parlando al telefono con le presunte vittime, usasse le dimensioni dei palchi gestiti dall’azienda di famiglia per parlare del denaro offerto con prestiti a strozzo. E per chi rifiutava di pagare, arrivavano le minacce: un imprenditore ha raccontato di una «visita» fatta da Albano nella sua azienda durante la quale l’uomo lo minacciò dicendo «devo andare a prendere tuo figlio... lo devo scannare». Ma nell'inchiesta «Palco» non si contestava solo l'usura, ma anche la turbativa d’asta: l'azienda della famiglia Albano, infatti, per l'accusa faceva affari con il Comune: si sarebbe aggiudicato una gara grazie alla complicità di un funzionario comunale. E nel processo si era persino costituito parte civile per chiedere il risarcimento dei danni: il legale del Comune, però, non ha quantificato l’ammontare del risarcimento. Come spesso accade il professionista ha rimandato la quantificazione al processo civile che potrebbe partire una volta terminato quello penale. Sempre che quello penale riesca davvero ad arrivare alla fine.

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