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«Non serviva una sentenza per sapere che l'Ilva inquina»: parla l'ex procuratore Sebastio

 
Vittorio Ricapito

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Vittorio Ricapito

«Non serviva una sentenza per sapere che l'Ilva inquina»: parla l'ex procuratore Sebastio

«Lo Stato ha già ammesso i danni fatti dallo stabilimento»

Martedì 01 Giugno 2021, 14:18

Franco Sebastio, ex procuratore della Repubblica, guidava il gruppo di pm dell’inchiesta sul presunto disastro ambientale causato a Taranto dall’Ilva. Possiamo parlare di vittoria?
«Negli eventi sportivi c’è chi vince e chi perde. I processi sono una cosa seria e umana, non si può parlare di vittoria ma dopo la sentenza di ieri posso dire che mi sento un po’ più sereno, perché probabilmente non abbiamo commesso errori madornali. Ora lo posso raccontare. Sulle nostre coscienze c’era una grande paura di sbagliare, di esagerare. C’erano in gioco la vita delle persone e anche questioni nazionali di carattere industriale ed economico».

Come si è arrivati a un processo di queste dimensioni?
«Dei problemi di inquinamento a Taranto la magistratura si occupa da circa 40 anni. Da pretore, nel 1982, scrissi la prima sentenza di condanna per spargimento di polveri pericolose a carico dei vertici del siderurgico, all’epoca Italsider di Stato. Me la sono conservata e ho mostrato ai giudici quel pezzo di archeologia giudiziaria 30 anni dopo, durante la requisitoria al processo dell’amianto killer. La triste considerazione fu che non era cambiato molto e quella sentenza sembrava ancora attuale. Non fu l’unica. Ricordo il primo processo sui parchi minerali dell’Italsider negli anni Ottanta. Nel corso degli anni ci sono stati diversi procedimenti penali per fatti di inquinamento che hanno riguardato anche la successiva proprietà dell’Ilva privata, quella dei Riva per intenderci. Negli anni le leggi sono cambiate, i mezzi di indagine si sono perfezionati e i reati contestati sono diventati sempre più gravi e pesanti. Poi quello per le cokerie (prima condanna pesante a 3 anni di reclusione per Emilio Riva, poi prescritta, ndr). Poi ancora il processo della palazzina Laf (il reparto-fantasma dove finivano i lavoratori «scomodi», ndr), primo caso europeo di codice penale applicato al fenomeno del mobbing, fino alle due sentenze passate in giudicato per i vertici Ilva per inquinamento e il processo più recente per l’amianto killer. Insomma non è che ci siamo svegliati un bel giorno e ci siamo inventati «Ambiente svenduto», si tratta di un lungo percorso che ha avuto un’evoluzione»

Tante sentenze, ma poi cosa succedeva?
«È questo il vero problema. Nel corso degli anni tutte quelle sentenze sono state lette in aule deserte. Ogni volta che nasceva un procedimento per inquinamento, fin da quando ero pretore e poi da procuratore, ho sempre avvisato gli organi competenti dello Stato. Gli scrivevo: “Guardate che noi stiamo facendo questa indagine ma siccome emerge una situazione di pericolo, prescindendo dai reati, vi sollecitiamo un vostro intervento”. Le conservo tutte le lettere. Non ho mai avuto una risposta. Sono stato convocato nel corso degli anni dalle commissioni parlamentari che si occupavano di questi problemi e puntualmente ripetevo le stesse cose. La mia conclusione è che chi aveva poteri e doveri ha delegato passivamente la soluzione all’autorità giudiziaria. Il magistrato persegue i reati, non fa trattative, non apre concertazioni, applica solo il codice e non può graduare il suo intervento. Così si è dovuti arrivare all’estremo. Davanti a situazioni molto gravi si sono presi provvedimenti altrettanto severi. Ecco forse un merito alla magistratura va dato in questo: a un certo punto, visto che nessuno interveniva nonostante tutti conoscessero la gravità della situazione, la magistratura ha dato una scossa».

Ora c’è una sentenza che dice che l’Ilva ha inquinato...
«Non c’era bisogno di una sentenza. Lo Stato italiano con almeno una dozzina di interventi, le così dette leggi “salva-Ilva”, ha ripetutamente ammesso che lo stabilimento produce gravi rischi per la salute. Altrimenti non ci sarebbe stato bisogno, in alcune fasi, di dare un salvacondotto penale a chi dirigeva la fabbrica».

Adesso cosa succederà?
«Bisognerà leggere le motivazioni e aspettare gli altri gradi di giudizio. Certo se venisse confermata la confisca del cuore della fabbrica vorrebbe dire che lo Stato italiano non potrà far altro che smantellarlo. Per ora gli impianti restano sotto sequestro».

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