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Taranto, intorno all'ex Ilva case deprezzate, ma risarcimenti lontani

 
Vittorio Ricapito

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Vittorio Ricapito

Lo dice la Cassazione, ma solo una delle 500 cause è a sentenza

Sabato 01 Giugno 2019, 12:05

Le case del quartiere Tamburi si sono deprezzate a causa dell’inquinamento dell’Ilva. Ora anche una sentenza della terza sezione civile della Cassazione lo stabilisce ma per i risarcimenti è ancora notte fonda. Finora solo una delle oltre cinquecento cause intentate contro il colosso siderurgico da cittadini del quartiere Tamburi, che si trova proprio accanto allo stabilimento, è arrivata all’ultimo grado di giudizio. E il risarcimento, circa 14mila euro, fu pagato quando ancora l’Ilva era di proprietà dei Riva. «Poi l’azienda è finita in amministrazione straordinaria e quindi è uscita da tutte le altre cause che avevamo fatto partire» spiega l’avvocato Aldo Condemi che ha patrocinato la causa e «ora c’è il concreto rischio che dopo tanti anni di processi non arrivi neanche un risarcimento simbolico per chi ha vissuto decenni accanto ai fumi e alle polveri vedendo la propria casa perdere valore giorno dopo giorno». Andiamo con ordine. La «causa pilot», così la chiama l’avvocato Condemi, parte nel 2012. Il signor Pellegrino Amato, che poi fonderà l’associazione «Comitato per i diritti della casa dei Tamburi» cita l’Ilva per danni perché la sua casa, come tutte le altre del quartiere, ha perso valore, aggredita quotidianamente da tonnellate di polveri minerali. A gennaio 2014 il giudice gli dà ragione e condanna Ilva spa, Emilio Riva, all’epoca proprietario dello stabilimento e morto nel 2014 e il direttore dell’epoca Luigi Capogrosso a risarcire Pellegrino Amato per «danni da immissioni intollerabili».

La decisione si basa su una sentenza definitiva del 2010 per getto di cose pericolose legata proprio alle emissioni dello stabilimento ma anche sulle più recenti perizie di «Ambiente svenduto», il maxi processo che ha portato al sequestro di buona parte degli impianti a luglio 2012. Nel 2017 la Corte d’appello riduce il risarcimento a 11mila euro, condannando solo Capogrosso e gli eredi di Riva (l’eredità in realtà è giacente), perché l’Ilva nel frattempo era stata dichiarata decotta e messa in amministrazione straordinaria. Da ieri la sentenza è definitiva. I sei motivi di ricorso in Cassazione di Fabio Arturo Riva e di Luigi Capogrosso sono stati respinti. Dopo la causa di Amato altri 140 proprietari di case del Tamburi hanno fatto partire una class action chiedendo circa 9 milioni di euro. Hanno avuto ragione in primo e secondo grado ma solo pochi sono stati liquidati. «Con l’amministrazione straordinaria è stata fermata ogni azione esecutiva» spiega Condemi. Non avendo un titolo esecutivo, cioé una sentenza, perché l’Ilva è uscita da quelle cause, i cittadini non possono neanche mettersi in fila al tribunale fallimentare di Milano nella massa passiva, l’enorme buco di debiti lasciati dalla vecchia Ilva. Oltre il danno la beffa. Nel quartiere dove il tumore è di casa ovunque, c’è il rischio che chi ha intentato quelle cause paghi di tasca propria la complessa perizia chimica, costata 130mila euro, servita per dimostrare che le polveri che hanno danneggiato e fatto svalutare case e palazzi provenivano dal siderurgico.

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