All’indomani dell’agguato teso nel 1980 a Walter Tobagi, Leonardo Sciascia scrisse che le brigate rosse eliminarono il giornalista perché «aveva metodo» nello smontare le loro tesi «rivoluzionarie». Con un salto indietro nel tempo, l’espressione dello scrittore siciliano spiega anche il delitto del deputato Giacomo Matteotti, consumatosi cento anni fa a Roma, il 10 giugno del 1924 per mano della polizia segreta fascista, la Ceka capeggiata da Amerigo Dùmini (la coltellata mortale sarebbe stata inferta dall’ex Ardito Albino Volpi).
Matteotti era un socialista che «aveva metodo». Per questo pagò con la vita la lotta al fascismo. Nell’ingaggiarla non utilizzò né violenza (sempre ripudiata) né slogan, ma la pragmatica e paziente denuncia delle strategie e dei fatti di sangue, degli uomini, delle vicende, dei numeri addirittura, che portarono l’Italia liberale al suicidio, mentre il fascismo occupava i gangli vitali del Paese e si trasformava in partito-Stato.
Nel brillante volume pubblicato da Laterza: L’affaire Matteotti storia di un delitto (pp. 132, euro 18), il saggista Fabio Fiore ricostruisce, con largo respiro, la parabola umana, storica, politica del parlamentare veneto. L’affaire è un giallo, una inchiesta e persino un romanzo. Dentro ci sono gli ingredienti del primo «delitto di Stato» italiano del Novecento: l’azione delittuosa della Ceka fascista creata da Mussolini; la ricerca del movente - ideologico? affaristico? - e i «nodi» irrisolti; la battaglia del deputato socialista contro il trasformismo prima e l’autoritarismo poi; la dolce e tormentata storia d’amore con la moglie Velia...