Ogni anno, quando si festeggia la storica Giornata Internazionale della Donna, si sollevano le voci di chi ritiene questa festa un’inutile riproposizione di un superato orgoglio di genere. Il punto, però, non è questo. Messa in questi termini, noi tutte potremmo essere anche d’accordo, ma poi – raccogliendo testimonianze per il mondo – viene fuori l’importanza di una semplice data per accendere il faro su situazioni molto gravi di abuso e carenza di diritti. Abbiamo parlato dell’Iran, dell’Afghanistan, di alcune donne sottoposte a un’atroce tratta, sin da giovanissime, nell’area del Sahel o nella dimenticata Cambogia. Un po’ meno abbiamo raccontato le donne del Messico.
Tempo fa, proprio su queste pagine, abbiamo ospitato un’intervista politica da Ciudad Juarez, la città di confine, che è nota tristemente come «la città dei femminicidi». Poi, in queste ore, ascoltando proprio da lì Eugenia, di una famiglia di origini italiane, è venuta fuori una testimonianza appassionata di chi vive economicamente molto bene, in questa grande città, ma non senza paura di camminare da sola, per strada, o di dover chiedere di vivere la propria professione con serenità e libertà intellettuale. E se sei una freelance come Eugenia, il rischio è davvero notevole, soprattutto da quando ha cercato di testimoniare la condizione carceraria in quel paese, che lei definisce bellissimo per molti aspetti, e che ha accolto tutta la sua famiglia agli inizi del Novecento. Ed è anche in nome di questo che il Messico, fra tutti i vasti territori dell’America Latina, ha visto per le sue strade, in questo 8 marzo appena trascorso, migliaia di donne a manifestare insieme nelle principali città.
Elias Camhagij ha scritto per El Pais che le giovani donne messicane hanno riempito lo Zócalo a Città del Messico, si sono fermate davanti al Palazzo del Governo, a Monterrey, si sono riunite intorno al cosiddetto Antimonumento, installazione a Guadalajara, del 2020, proprio contro la violenza di genere. Queste ragazze hanno saltato e cantato sul viale 5 de Mayo a Puebla. «Sono venuta a marciare perché sono stata molestata da quando avevo 12 anni», dice Hazel Anzola, una ragazza ora di 17 anni. Accanto a lei, Marina Luna, sua madre, porta uno striscione: «Sono qui perché mia figlia non abbia paura». «Le mie cugine, le mie amiche, mia nonna... Tutta la mia cerchia familiare, nel tempo, ha sofferto come me e non possiamo più rimanere in silenzio», dice. Passa poi una donna con un cartello: «Oggi grido per la ragazza che non ce l'ha fatta mentre veniva stuprata. Non la conoscevo, ma manifesto per lei».
Testimonianze ancor più appassionate arrivano dal popoloso stato di Nuevo Leon: è una zona ricca, con molte industrie e con una buona prospettiva di lavoro per tutti, ma - anche qui - si sono registrati tantissimi casi di donne scomparse. Anche qui la differenza di genere, nei salari e nei diritti, si fa sentire drammaticamente. Arrivano dritte al cuore le immagini di quella capitale, dove si è cercato di raccontare anche la condizione delle giovani dottoresse, nei loro ambulatori, spesso costrette ad aver paura, sentendosi minacciate da finti pazienti. La profondità di queste testimonianze era ancora più alta proprio perché veniva da ragazze di famiglie benestanti, felici, «privilegiate», le quali hanno deciso di sfilare, lì, sotto questo motto: «Que el privilegio no nos nuble la empatía» (affinché quel privilegio non annebbi la nostra empatia). E poi c’erano i versi scritti da Sofia Gutierrez (giovane psicologa e fotografa) su un tessuto fatto a mano, con queste parole finali: «Con una misma voz». I drappi erano sostenuti da sua sorella Maria José e dalla sua amica Sofia Garcia.
Vedendo le loro immagini, quasi in diretta, era profonda la commozione da quest’altra parte dell’oceano ed era impossibile non sentirsi lì, vicino a loro, che parlano poco il nostro italiano, ma amano profondamente il nostro Paese. Maria Josè ha vissuto mesi a Roma per studiare e far ricerca al Policlinico Gemelli (dopo aver visto diverse realtà, per esempio fra le disagiate popolazioni di Haiti); ora sfila, allegra e orgogliosa, proprio com’è il suo carattere, con un cartello in mano, in nome del diritto al futuro: «Marcho perque ninguna doctora tenga miedo en su consultorio» (manifesto affinché nessuna dottoressa abbia paura nel suo ambulatorio). Con queste scene, ripensiamo al nostro Paese, l’Italia, decisamente privilegiata, e chiediamo alle due leader politiche, Elly e Giorgia, così diverse nelle loro idee, di essere una sola voce empatica per i diritti delle donne sul lavoro.