Lunedì 08 Settembre 2025 | 17:26

«La Puglia si salva se impara a fare rete»: l’appello per i giovani del vescovo Neri

 
Maristella Massari

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Maristella Massari

«La Puglia si salva se impara a fare rete»: l’appello per i giovani del vescovo Neri

«I veri poveri di oggi sono i nostri ragazzi costretti a partire dalla loro terra»

Lunedì 08 Settembre 2025, 12:06

Nel cuore del Salento, tra i racconti di guerre lontane e le macerie del Mediterraneo, mons. Francesco Neri non dimentica le fragilità di casa nostra. Il vescovo di Otranto, appena sceso dal palco del Festival Giornalisti del Mediterraneo, parla di giovani costretti a partire, di infrastrutture negate, di un Sud che rischia di spegnersi se non impara a fare rete.

«I veri poveri oggi sono loro, i ragazzi – dice –. A loro dobbiamo restituire speranza, dignità e futuro».

Partiamo dalla Puglia. Perché secondo lei i veri poveri oggi sono i nostri giovani?

«Perché manca la speranza, la possibilità di immaginare un futuro. Molti lavorano d’estate nei ristoranti, sottopagati. Altri sono costretti ad abbandonare il Salento o più in generale la nostra bella Puglia perché qui non c’è spazio per i loro talenti. La nostra Diocesi ha scelto di dedicare tre anni di cammino pastorale proprio ai giovani, perché restituire loro speranza significa restituire dignità all’intera comunità».

Tra le cause della fuga dei ragazzi dal Sud ci sono anche le carenze infrastrutturali. Lei in qualche maniera ha denunciato questa situazione.

«È così. Se da Milano vuoi venire a vedere lo straordinario mosaico di Pantaleone a Otranto, devi accontentarti di un Flixbus. I treni ci sono, ma insufficienti. Non è solo il Salento, tutta l’area del Sud soffre. Io stesso, per andare a Catanzaro a raggiungere la mia famiglia d’origine, qualche settimana fa, ho fatto un viaggio della speranza. È paradossale: tutti vogliono il Salento, ma il Salento resta isolato. Senza investimenti seri in ferrovie e strade, il rischio è di condannare intere aree all’estinzione».

Lei parla spesso di “resilienza” come forma di speranza. Che cosa intende?

«Vuol dire restare. Non cedere alla rassegnazione. Significa che istituzioni civili, culturali e Chiesa devono allearsi per creare le condizioni di lavoro e dignità. Ma serve anche un cambiamento culturale: superare l’individualismo che spesso caratterizza il Sud. Troppi campanili, troppe piccole autonomie che non hanno più senso oggi. Bisogna fare rete. Solo così la Puglia può salvarsi da sola, come diceva Daniele Comboni dell’Africa: “Salvare l’Africa con l’Africa”. Io dico: salviamo la Puglia con la Puglia».

Una parola di speranza per i ragazzi che sognano di restare nella loro terra?

«Nello stemma episcopale ho scelto i pani e i pesci. Mi sento una piccola cosa, ma nelle mani di Dio anche il poco diventa sovrabbondante. Se impariamo a condividere quello che abbiamo, scopriremo che è sufficiente per tutti. Non serve un miracolo, serve allargare la mano chiusa e mettere in comune le risorse. È questo il vero miracolo. È questa la strada che salverà il futuro: meno individualismo, più comunità. Così i nostri giovani potranno restare, e la Puglia non sarà più costretta a guardare i suoi figli partire».

Eccellenza, lei al festival ha ascoltato i racconti di giornalisti che vivono la guerra sulla propria pelle. Qual è l’immagine che le è rimasta più impressa?

«Il fatto che a Gaza i giornalisti non possano entrare per raccontare ciò che accade. L’orrore delle decine di migliaia di vittime è inenarrabile, ma mi sembra ancora più grave la violenza contro la verità, contro la possibilità che il mondo sappia. È un modo per impedire che l’umanità si organizzi per fermare il male. La violenza contro l’informazione è una ferita etica profonda».

Il Mediterraneo è stato descritto come “mare di guerra e di pace”. Lei come lo vede?

«È un luogo di incontro tra tre continenti, e per questo inevitabilmente anche di frizioni tra culture e interessi. Ma l’incontro non deve diventare scontro: può trasformarsi in scambio, perfino in amicizia. La storia del Mediterraneo offre molti esempi di convivenza e fecondazione reciproca. È questa la direzione: costruire incontri che generino amicizia, non conflitti».

Otranto porta nella sua storia la memoria dei martiri. Cosa insegna questa eredità di fede davanti ai conflitti di oggi?

«Il primo impulso dei martiri è guardare a Cristo crocifisso, colui che ha scelto l’amore fino all’estremo. È un messaggio che non può diventare solo orizzontale: i martiri ci ricordano che non dobbiamo mai collaborare con il male. Nell’Apocalisse ci sono i quattro cavalieri – peste, carestia, guerra e morte – ma c’è anche la donna vestita di sole, simbolo della Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà. Ai martiri dobbiamo questo: non arrendersi, non farsi reclutare dal male».

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