BARI - Uno dei principali gruppi imprenditoriali della provincia di Foggia, cui fa capo la società che gestisce l’appalto del «lavanolo» (la biancheria e i materassi) in tutti gli ospedali pugliesi, «ha costituito lo strumento diretto per l’attuazione di logiche mafiose nell’economia legale», fornendo ai clan locali una agevolazione «immanente e non occasionale». È pesante come un macigno il giudizio della Prefettura nell’interdittiva antimafia contro la Lavit, riconducibile alla famiglia D’Alba, che nel 2020 ha vinto insieme ad altre due imprese (estranee alle contestazioni) la maxigara InnovaPuglia da 187 milioni.
Il tema è delicatissimo e mostra la possibile opacità di un pezzo importante del sistema di gestione degli ospedali pugliesi. Perché dopo l’interdittiva nei confronti della coop Tre Fiammelle (global service anche nel mondo sanitario), il prefetto Maurizio Valiante a dicembre ha assunto un analogo provvedimento anche nei confronti della Lavit che è legata alla prima non solo dalla figura del suo patròn Michele D’Alba, 64 anni, di Manfredonia, amministratore unico fino al 2010 ma tutt’ora ritenuto il dominus di una cooperativa (Lavit, appunto) di cui sono soci suoi familiari. Una «impresa di famiglia» nata nel 2008 per scissione da Tre Fiammelle con il trasferimento di beni per quasi 6 milioni. A settembre 2022 Tre Fiammelle ha finanziato Lavit per altri due milioni. Soldi mai tornati indietro. Un indizio, secondo il Gruppo di intervento antimafia della Prefettura, della stretta interdipendenza tra le due cooperative, ritenute riconducibili allo stesso centro decisionale.
Il nome di D’Alba appare nelle intercettazioni di una delle più importanti inchieste antimafia foggiane dell’ultimo decennio, «Decima Azione», in cui non risulta indagato per quanto risulta che la Dda di Bari stia compiendo ulteriori valutazioni. A costargli l’interdittiva, contro Tre Fiammelle come contro Lavit, è il contegno mantenuto con due pezzi da ‘90 della mafia foggiana, i due pregiudicati (denunciati da due ex soci di D’Alba e poi condannati) che l’11 gennaio 2018 si sono recati nella Rssa «Il Sorriso» per chiedere pizzo e assunzioni: al «no» del responsabile del personale, uno dei due mafiosi avrebbe risposto «questa palla se la deve tenere D’Alba». Secondo la Dda, e secondo la Prefettura, quella frase vuol dire che D’Alba pagava. A conferma di questa ipotesi c’è quanto trovato sulla cosiddetta «lista delle estorsioni» della Società foggiana, un elenco sequestrato nel 2018 in cui si legge «Tre Fiammelle, 4mila ogni tre mesi».
D’Alba ha denunciato a fine ottobre 2017 generiche richieste estorsive giunte a suoi familiari, ma ha detto di non aver mai pagato e soprattutto di non aver mai avuto contatti con il pregiudicato (sodale del clan Moretti) che ha parlato della «palla» alla Rssa. Ma il pregiudicato, in una intercettazione, racconta a un suo sodale di aver parlato proprio con l’imprenditore di Manfredonia.
Da questo contesto la Prefettura ricava la posizione di «fiancheggiatore» dei clan di D’Alba, che - intercettato dalle microspie nella sala d’attesa della questura di Foggia - avrebbe invitato il figlio e il genero a non dire nulla ai poliziotti sui tentativi di estorsione da parte dei clan. E soprattutto, argomenta la Prefettura, mentre gli ex soci dell’imprenditore di Manfredonia (i Telesforo-Vigilante) hanno pagato con attentati e intimidazioni la loro denuncia, D’Alba «non era soggetto con il suo impero imprenditoriale alle attività ritorsive della mafia foggiana, connesse al mancato pagamento del pizzo». Una «franchigia» che, secondo la Prefettura, «non può avere altro significato che l’adesione degli imprenditori al modello estorsivo, riorganizzato dalla mafia foggiana, preoccupata dalla diaspora di alcuni imprenditori dal sistema di controllo mafioso».
L’interdittiva parla di un «contesto “solidaristico”» esistente tra D’Alba e la mafia foggiana, che significa non solo essere disponibile a pagare il pizzo ma anche tenere la bocca saldamente chiusa. E da questo discenderebbe «ragionevolmente» la disponibilità «ad alimentare gli interessi economici del gruppo criminale di riferimento», oltre che l’«agevolazione sistematica alla affermazione del potere del gruppo mafioso stesso». Chi non denuncia o lo fa soltanto per finta, scrive il prefetto, «finisce per rafforzare il nomen e la percezione collettiva di un “potere” qualificato del clan di riferimento in un determinato contesto territoriale».
Le interdittive antimafia non sono una sentenza giudiziaria, ma hanno soprattutto valore anticipatorio: servono a evitare che la criminalità organizzata prenda le redini di una impresa. Il prefetto Maurizio Valiante lo ha scritto chiaramente. Ma nonostante questo la situazione che riguarda Tre Fiammelle e Lavit sembra essere passata sotto silenzio, come se fosse solo un problema foggiano: il procuratore, Ludovico Vaccaro, e il procuratore distrettuale Roberto Rossi sono tra i pochi intenzionati a non far calare il silenzio su questa storia.
L’interdittiva nei confronti della coop delle lavanderie porta la data dello scorso dicembre, ed è stata impugnata davanti al Tar di Bari (l’udienza è prevista nei prossimi giorni) che finora ha respinto tutti i ricorsi presentati da D’Alba: la difesa sostiene che dalle intercettazioni non si ricava affatto l’invito «al silenzio» fatto dall’imprenditore ai suoi familiari. Nel frattempo il prefetto Valiante ha nominato i tre commissari (l’avvocato Massimo Melpignano e i commercialisti Anna Ilaria Giuliani e Antonio Rana) che per amministreranno Lavit almeno fino ad aprile per verificare il corretto svolgimento del servizio e tutelare i dipendenti. I commissari hanno chiesto alle stazioni appaltanti (oltre le Asl pugliesi ci sono il Policlinico di Catanzaro, i Comuni di Foggia e di Manfredonia, le Regioni Basilicata e Calabria, il Gse) informazioni sui contratti in corso. Ma alcune aziende sanitarie pugliesi stanno verificando se ci sono convenzioni Consip attive per il lavanolo, perché in caso affermativo valuteranno la rescissione: c’è anche chi non sopporta il solo sospetto di avere, in corsia, qualcuno che strizza l’occhio ai clan.
LA REPLICA DELL'AZIENDA
«La misura [interdittiva] in questione si fonda soltanto sulla presunta incompletezza della denuncia pure prontamente sporta dall’imprenditore Michele D’Alba - che, peraltro, non riveste alcun ruolo apicale e/o gestionale nell’ambito della Lav. I.T. - di minacce estorsive ricevute unitamente ai suoi congiunti nel 2017». E' quanto sostiene Lavit spa in una nota a firma di Lorenzo D'Alba. Secondo l'azienda l'articolo della Gazzetta «omette di riferire che nelle sentenze penali relative al sodalizio cui vengono ricondotte le pretese estorsive in questione, da tempo sgominato, si dà atto della circostanza che la denuncia di D’Alba si è rivelata utile ai fini della successiva attività investigativa che ha condotto alla individuazione di pregiudicati appartenenti al predetto sodalizio», circostanza che la Prefettura di Foggia ritiene però assolutamente non vera.
«Nessun cenno si rinviene poi nell’articolo - sempre secondo la nota - al contenuto del provvedimento del Tribunale della prevenzione di Bari con cui, accogliendosi l’istanza di controllo giudiziario prodotta da altra impresa colpita da analoga misura sulla base del riferito addebito al D’Alba (la cooperativa Tre Fiammelle, ndr), si sono confutati nella sostanza gli argomenti posti a fondamento del provvedimento prefettizio, escludendosi in particolare la sussistenza di elementi da cui argomentare l’adesione dell’imprenditore alle pretese estorsive della criminalità organizzata».
«La Lav.I.t. - prosegue ancora la nota - ha ripetutamente manifestato negli atti fondamentali che regolano la vita della società il suo fermo ripudio di ogni forma di criminalità organizzata ed è da tempo munita di moduli organizzativi interni a presidio della trasparenza della propria attività, sicché respinge con fermezza ogni sospetto incautamente adombrato nella conclusione dell’articolo in questione».