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Storia dei «nostri» presepi nelle parrocchie: le radici del Natale a Potenza

 
Lucio Tufano (storico e saggista)

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Lucio Tufano (storico e saggista)

Storia dei «nostri» presepi nelle parrocchie: le radici del Natale a Potenza

Le festività natalizie della tradizione contadina lucana

Martedì 24 Dicembre 2019, 11:47

POTENZA - Dalle latitudini del gelo torna il Natale che ha radici profonde dentro l'infanzia e la memoria.
Dal regno delle fiabe, col vischio e l'agrifoglio, dalle cupe foreste di abeti, querce e larici, dalle nevi bavaresi e dalla tundra, dalla Lapponia finlandese, dal nord delle regioni artiche, scandinave ed anglosassoni, viene, nel solstizio d'inverno, quando il sole, dopo la più lunga delle notti, torna a (ri)sorgere.
Viene dalle rigide sponde di borea col luccicore dei rami e le candeline accese, nel folto stormire dei boschi e reca il soffio delle tramontane, il respiro dei ginepri.
Lontanissimo culto iperboreo: vi furono epoche in cui si ebbero le foreste illuminate a giorno nelle notti più tenebrose. Rami o alberi erano davanti agli ingressi, ed un ramo (strenna) appendevano i Romani nell'atrio delle loro case all'inizio di ogni anno.

Gli alberi furono i templi degli dei e Roma arcaica ed imperiale ravvisò in essi l'antico albero della vita, l'albero cosmico.
Fu alla corte di Strasburgo, nel 1605, che s'intravide il primo albero di Natale e nella Bassa Slesia. Nel 1611 la duchessa di Brieg attaccò all'albero del suo cortile lumi e doni per i bambini dei vassalli. In Inghilterra nel 1840, ad opera del principe Alberto e della regina Vittoria e poi in Austria ed in Francia, furono adottati alberi di Natale, non come esaltazione mistica dei fatti naturali, ma l'adozione di questi simboli di ordine spirituale. Il Natalis solis invicti, rappresenta il ridestarsi della divinità solare e l'inizio del nuovo anno.
Quando la “luce” è sembrata spegnersi, nelle terre desolate, tra i ghiacci, nelle acque e nelle boscaglie, ecco che si rialza e risplende di nuovo chiarore.
Così l'albero, profumo di resina, pieno di multicolori, di fili d'argento e di oro, di nastri e gemme, di neve e stalattiti è giunto fino a noi.
Introdotto dalla cultura anglo-americana nel dopoguerra, si è sempre più diffuso fino a renderci festosamente partecipi del Christmas. Ora gli alberi di Natale sono nelle vetrine, davanti ai supermercati, nei grandi magazzini, attorno ai punti vendita, nelle piazze, nelle grandi e piccole città, nei paesi, in ogni casa signorile o modesta.
Sono punti luminosi, segnaletica di pace e di prosperità, contro ogni perversa volontà di violenza, contro quell'oscura notte che sempre ci sovrasta.

Sono stati collocati nella piazza principale della nostra città, un segno, una metafora dei sindaci meridionali che subiscono il fascino e la suggestione dell'immenso Nord. Quest'anno infatti, ci sono anche grandi slitte trainate dalle renne luminose ed abbaglianti come nelle più antiche fiabe del nord e della tundra.
Ecco che piazza e strade costituiscono quel “nucleo genetico” essenziale del tracciato urbano, con l'incedere ed il sostare del cittadino, la stasi ed il movimento, e dove confluisce la traiettoria di via Pretoria e dove quell'indugiare a circolo eleva la piazza a ventricolo essenziale del centro storico. “Corte” di un edificio virtuale, la piazza confluisce nell'immagine del teatro e del potere, cosa che gli urbanisti ed i politici conoscono.
In queste piazze, i palazzi del Potere sono illuminati da centinaia di luci, a significare una ricorrenza “imperiale”, che ci riporta alla storia madre dei trionfi.

Da altre meridiane, dal sud misterioso, dal coro dei messaggeri biblici, dei salmi, dalle comete descritte nei sacri libri, dai testamenti dei padri, dalle corrose mura di Gerico, da ogni depressione medio-orientale, dalle terre dei prodigi, dai climi temperati di mare e di dune, dagli scirocchi mediterranei, da dove si levano i favonii ed i libecci, dalle sabbie e dai palmizi della Palestina, torna il presepe suggestione perenne, regia e topografia del mondo, vengono i suoni, i pastori, gli zampognari, i mitici re magi … Hormidz, sovrano di Persia, Kazdegerd, principe di Saba e Peroz, re di Seba, attraverso il deserto, dalle oasi e dai minareti, nei pressi delle moschee.
Oriente notturno, immaginario ed indeterminato. I magi vengono per le vie diverse, da altre religioni, altre visioni.
Dai vangeli apocrifi e dalle leggende orali, i costruttori di presepi popolari – dal settecento in poi – hanno inserito nelle scenografie della Natività espressioni e vicende molteplici.
San Francesco d'Assisi nel 1223 allestì con personaggi veri la grotta e la natività e San Gaetano da Tiene, in seguito ad una visione in Santa Maria Maggiore, si adoperò nel 1517 a costruire con le sue mani, casette e pupi di legno e di terracotta, dando così il via a quei presepi che a Genova e soprattutto a Napoli avrebbero sbalordito per bellezza e validità artistica. L'importanza e lo splendore dei presepi napoletani ispirarono Sant'Alfonso de' Liguori che nel 1753 compose la pastorale “tu scendi dalle stelle …”.

Ci furono i presepi delle nostre confraternite, delle parrocchie, negli angoli semibui e nel trionfo del freddo e degli incensi con le disperate ed ancorate note degli organi, pittoreschi ed impressionanti nel silenzio delle chiese, o negli spaziosi corridoi dei monasteri e nelle celle dei conventi, quelli di don Pasquale Tropeano a San Gerardo, di padre Anastasio a San Michele, di don Mimì Sabia alla Trinità, quelli allestiti nelle più ricche dimore della nostra città. I bambini della borghesia, quelli poveri e gli orfanelli. Ammiravano compiaciuti i rigagnoli d'acqua ed i mulini, le osterie disseminate sulle colline, il vasto firmamento sulle pareti, la donna che porta il pane, quella che lava i panni, il ciabattino, sotto la montagna lontano dai castelli, i suoi deboli riverberi tra le enormi colonne e le altissime navate. E tra i curiosi dei vicoli e dei sottani, divertiti dalle facce dei “pupi”, dagli abiti strani a toppe e dalla grottesca analogia di quel teatro, continuava l'itinerario innocente degli sguardi attenti alla scoperta dei “pupi” ritratti nel più solenne raccoglimento, scolpiti nella terracotta, al passaggio della cometa.
Giungeva attorno ai portoni e davanti alle cantine il suono dei pifferi. Era la nota pattuglia di Mancusiedd per la raccolta di pochi spiccioli, di mostaccioli e di biscotti. Dalle contrade innevate dell'Arioso, anche i nostri pastori, girovaghi della “Novena”, con berretti strani, mantelle e zampitt, suonavano per le strade e nei vicoli della città, ombre in preda alle nebbie della tormenta e del fumo sprigionate dalle case contadine.

Il nevischio era il segnale di una festa dal freddo intenso e dal quasi sicuro appagamento del bisogno primario di mangiare meglio degli altri giorni. L'agrifoglio ed il vischio con le sue perle adornavano le tavole imbandite della vigilia.
Il frenetico operare di forni e di cucine ed il profumo delle prime arance avvincevano in una gioia indefinibile, sicuramente collegata ai suggestivi sintomi provati nell'infanzia.
Nei vicoli aggrediti dal “pulvino” ed in poveri stambugi abitavano i contadini che vivevano, anch'essi, un'atmosfera di strana euforia per l'accadimento e per il vino appositamente spillato dalla botte. Avevano negli angusti sottani le tavole grigie, dal colore della cenere e gli stracci nel vicolo sventolavano o si irrigidivano come scheletri di ghiaccio.
Da questi ambienti veniva l'acuto odore degli sterpi al fuoco, il chiasso dei bambini ed il forte sentore del Natale contadino.
Alle poche luci s'intravedevano misere stalle. I muli cacciavano il muso e la frogia attraverso le spranghe delle sgangherate porte da cui il lezzo di stallatico e di muffa soffiava sui passanti infreddoliti ed intabarrati. Qualche pattuglia di pastori, andava allietando l'uggiosa aria di gelo e di foschia con le zampogne a canne. Dalle case un alito di pettole fritte e la fragranza di pane appena cotto, assalivano l'aria festosa fruendo di gusti ed attenzioni particolari. Un rito antico esaltava questo essenziale alimento perciò il pane, il Natale e l'inverno sono ancora un connubio sacro dei Cristiani.

Presso le diocesi sin dai primi secoli si santificava il pane, tant'è che venivano scambiati grossi pani tondi e se ne distribuivano, in grande quantità, ai poveri di ciascuna parrocchia. Attorno al focolare, nella santità e serenità della famiglia contadina. Ma è tutto l'occidente che a Natale attribuisce al pane aspetti, ruoli e funzioni diverse. Pane di fantasia, pane a biscottini, pani di ogni forma e figura, un'idolatria ed un misticismo intramontabili. Il pandolce, i pangialli, i panettoni, i pandori, il panforte, il pandispagna, il panotto, il pane azzimo, ed il panpepato … sono i simboli venerati della spiritualità e della ricorrenza. Su tutte le mense regna infatti il panettone di Milano. In Piemonte il pranzo si chiude con il “Galup”, un dolce del Pinerolo, mentre in Liguria vi è il pandolce ed in Emilia il “pan speziale”, di origine antica fatto di farina, miele, mandorle, nocciole, uva sultanina, cioccolato, pinoli, frutta candita. In Toscana vige il panforte di Siena. In Umbria si usano i maccheroni con le noci e le tagliatelle fatte in casa, bollite e condite con lo zucchero, cannella, noci tritate. A Roma il pranzo viene coronato dall'originale “pangiallo”, fatto di farina, zibibbo, mandorle, pinoli e spezie. Nei pressi di Rieti e di Viterbo la “nociata”, al miele, chiara di uova e pepe. A Napoli è sempre la pastiera a corredare la tavola. La Puglia ci viene incontro con le “cartellate”, nastri di sfoglia sottile a corona, fritti nell'olio ed affogati nel miele. La “pignolata” di Calabria, con i confettuzzi variopinti non ha nulla da invidiare alle magnifiche cassate ed ai cannoli o alla “pignolata” siciliana, metà bianca di glassa zuccherina e metà cioccolato.

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