di Giuseppe De Tomaso
Quasi mai era accaduto che l’esito di un referendum fosse più incerto di un derby calcistico. Ma, comunque vada a finire, il derby elettorale sulla riforma costituzionale è riuscito nell’impresa di dividere, e pure di riavvicinare, alla politica e ai grandi temi istituzionali milioni e milioni di persone. Anche se il voto odierno è diverso dai tradizionali referendum abrogativi su cui si sono pronunciati gli italiani negli ultimi decenni, fino a ieri l’istituto stesso del referendum aveva mostrato più crepe di un palazzo terremotato. Gli elettori ne avevano ben donde. Non riuscivano, e forse tuttora non riescono, a capacitarsi del fatto che la democrazia rappresentativa richiamasse alle urne i cittadini per dirimere controversie complicate e sottili anche per gli stessi addetti ai lavori. Figurarsi per la gente comune.
Il referendum costituzionale di oggi, non solo per distinzioni giuridiche, non rientra nel novero delle altre precedenti consultazioni similari. Può essere paragonato solo al referendum fondativo dell’attuale sistema democratico: quello tra monarchia e repubblica. Intendiamoci, il quesito referendario sulla riforma Boschi non stravolge l’assetto costituzionale, né rivoluziona la filiera di poteri ai vertici dello Stato. Si limita a toccare 47 articoli della Carta, e di questi 47 articoli una decina sono dirimenti e incisivi. Tuttavia la riforma, il cui cammino referendario sarebbe proseguito senza particolari boati se il presidente del Consiglio non avesse legato il giudizio elettorale al suo futuro politico, ha acceso e spaccato il Paese e le stesse forze politiche, sociali, sindacali.
Un fatto è certo. L’Italia ha bisogno di riprendere a correre. Matteo Renzi ritiene che semplificando il processo decisionale, il Paese potrà ritrovare il ritmo degli anni d’oro. I suoi oppositori ritengono, invece, che la riforma costituzionale sottoposta a referendum non abbia le carte in regola per risvegliare la Penisola. Non è facile stabilire chi abbia ragione, anche se un grande della politica mondiale come Winston Churchill (1874-1965) diceva che a cambiare non sempre si migliora, ma che per migliorare bisogna sempre cambiare.
La storia italiana è prodiga di occasioni mancate per aver messo il freno alle riforme ed è carica di delusioni accertate per aver spinto l’acceleratore sulle riforme. Ugo La Malfa (1903-1979), che pure era un riformista doc, era più guardingo di uno scoiattolo alla vista di un cobra quando gli capitava una riforma sotto gli occhiali. Il timore, per lui, che la novità sfociasse in una beffarda controriforma, lo rendeva più disincantato e scettico di un filosofo della Magna Grecia.
Ma l’Italia non può restare a guardare. Fu Giorgio Napolitano, quando accettò il bis (provvisorio) al Quirinale, ad assegnare i compiti a casa agli attuali parlamentari, che lo applaudirono nonostante le frustate partite contro di loro dal Preside in cattedra. Probabilmente Napolitano non pensava solo alle riforme costituzionali, ma anche a quelle per economia e giustizia. Sta di fatto, però, che, al dunque, risulterebbe difficile, quasi impossibile, trovare un punto di convergenza tra i protagonisti in campo, non foss’altro perché, da sempre, si confrontano due modelli di democrazia (quella decidente e quella rappresentante) e due criteri di costruzione costituzionale (centralismo e federalismo).
Chiunque dovesse vincere il ballottaggio referendario di queste ore, domani non potrà esultare come se avesse vinto il mondiale di Formula Uno. Chiunque prevarrà dovrà tener conto che l’altra metà del Paese ragiona in un altro modo, e che il Paese ha bisogno di un mastice resistente, pena la sua frantumazione in mille pezzi.
Ecco perché, in circostanze come queste, emerge con forza la figura del Capo dello Stato, cui i Costituenti hanno assegnato un ruolo fondamentale specie nei momenti di transizione, nelle fasi delicate, nelle situazioni inestricabili. Non c’è temperamento personale che tenga, in queste vicende particolari. Anche l’inquilino del Colle più riservato e taciturno, nei momenti di incertezza del quadro politico e istituzionale, si ritrova a recitare la parte del capitano non giocatore, non più quella dello spettatore più o meno impegnato.
I poteri del Presidente della Repubblica, in Italia, sono a fisarmonica: larghi nei periodi di confusione e conflittualità, ristretti nei periodi di chiarezza e tranquillità. Sergio Mattarella, per indole e vocazione, non è portato a invadere campi altrui. Né è proclive a rubare la scena a chi è titolare di altre funzioni. Di sicuro è una garanzia, perché ha dato prova di considerare la sua elevata magistratura come il pilastro dell’interesse generale nazionale. Traduzione: se Renzi vince, il presidente della Repubblica saprà consigliarlo e guidarlo sulla strada giusta, perché l’applicazione delle norme contenute nella riforma Boschi non sarà un gioco da ragazzi; se Renzi perde, Mattarella saprà gestire le fasi successive secondo criteri improntati a buonsenso e saggezza.
Bisogna dare atto ai Costituenti che vararono la Carta entrata in vigore nel 1948, di aver ben ritagliato le competenze del Capo dello Stato, che non avrà i poteri sostanziali di un presidente eletto dal popolo come in Francia, ma non ha neppure i poteri protocollari del suo collega tedesco. Il titolare del Quirinale è l’arbitro che può dare le carte quando il gioco politico somiglia a un nebbione padano.
Infine, una preghiera. Il referendum tocca aspetti essenziali della vita pubblica, del meccanismo decisionale. Tocca anche o soprattutto il controverso rapporto tra Stato e Regioni, e tra Nord e Sud. È importante votare sul merito della riforma, più che sul resto, sul contorno (anche se la politicizzazione della contesa ha oscurato i punti fermi del testo). E per votare con cognizione di causa è opportuno conoscere bene la riforma oggetto della consultazione. Conoscere, discutere, decidere, era la sequenza raccomandata dal grande economista Luigi Einaudi (1874-1961). I guai dello Stivale sono ricominciati quando il precetto einaudiano ha cessato di esistere persino nei convegni dove, con una citazione, si fa bella figura. Figurarsi nei posti dove si prendono le decisioni.
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