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Sui nomi «galoppano» fantasie internazionali

 

Toponomastica, vincono i nomi storici e quelli delle città

Venerdì 02 Settembre 2016, 10:16

di Sergio Fortis

Come chiamare il ponte sull’asse nord-sud di Bari, che collega via Tatarella e via Nazarantz? Quello pedonale di Pescara è stato subito accreditato come «Ponte del Mare». Viene in mente lo Shakespeare del Romeo e Giulietta, atto secondo, scena seconda: «Che cosa c’è in un nome?». Per una grandiosa realizzazione tecnica, identificarla significa riconoscerla. Il ponte, poi, rappresenta il primo vero intervento dell’uomo per modificare lo spazio, le vie di comunicazione e l’assetto naturale dei luoghi.

Il ponte di Bari evoca un’epopea nella quale i fatti e l’immaginario convergono e si sovrappongono in una rassegna di suggestioni.

Innanzitutto, i materiali. Dalla corda, al legno, per finire con la pietra e il metallo. Di volta in volta, il loro impiego segna le necessità specifiche degli attraversamenti da posizionare. Mille e trecento anni prima di Cristo, nell’età del bronzo, viene costruito il ponte di Kazarma (o di Arkadiko), uno dei più antichi ad arco di cui si registri la presenza. Insieme ad altri tre, rientrava nella rete viaria micenea tra Tirinto ed Epidauro nel Peloponneso, percorsa da carri. D’altronde, non è l’unico che rimane ancora intatto nella medesima regione ellenica.

Nel poema indiano Arthaśāstra, del III secolo a.C., si citano ponti e dighe eretti sull’intera superficie del subcontinente. James Princep ritrovò un ponte dell’impero Maurya vicino Girnar. Travolto da un’esondazione di origine pluviale, venne riparato da Puspagupta, il maestro architetto dell’imperatore Chandragupta I. Dal IV secolo in poi, l’India è riempita di ponti rinforzati da intrecci di bambù e catene di ferro. Principale committente dei lavori, l’impero Moghul.

In Europa, il primato dei ponti va ai romani. Le loro vestigia riempiono siti archeologici e località di denso retaggio. Alcuni meritano particolare apprezzamento per la forza anticipatrice rispetto ai tempi. Ad esempio il Ponte di Alcántara, sul fiume Tago, in Spagna. Da segnalare che i Romani arrivarono a impiegare anche il cemento, importante per ridurre la variazione di resistenza della semplice pietra. Una miscela, la pozzolana, consisteva di acqua, calce, sabbia e roccia vulcanica.

I cinesi costruirono ponti di legno durante l’era dei cosiddetti «regni combattenti». Alla dinastia Sui risale il più antico ponte di pietra, quello di Anji, eretto fra il 595 e il 605 d.C. durante la dinastia Sui.

Ravvicinando la prospettiva cronologica, l’idea stessa di questi colossi architettonici concide con le immagini delle tessiture in ferro di New York e San Francisco. I ponti sospesi fanno somigliare i prodotti della civiltà industriale a installazioni d’avanguardia.

Fausto Veranzio scrisse nel XVI secolo Machinae novae, addita declamazione Latina, Italica, Gallica, Hispanica et Germanica, dove illustrava per la prima volta due varianti dei ponti sospesi, una su corde e l’altra su catene metalliche. Di qui derivarono, trecento anni dopo, le prime forme concrete di questo concetto innovativo e ormai acquisito nell’edilizia del settore.

Per primi vennero gli Stati Uniti. James Finley brevetta e costruisce un ponte sospeso con catene di ferro sul fiume Jacobs Creek, in Pennsylvania. Fu la matrice di tutto quanto verrà dopo. Innanzi tutto il Golden Gate di San Francisco. Questo ebbe due padri, uno putativo e uno legittimo.

L’ingegnere James Wilkins pubblicò un articolo per esplicitare l’idea di un ponte di collegamento fra la città e la Marin county. Sarebbe stato utile per accelerare e mettere in sicurezza la traversata dello stretto, a quell’epoca effettuatabile solo con i traghetti. Nel 1917 il responsabile dell’urbanistica di San Francisco, M. H. O’Shaughnessy, suggerì l’appellativo di «Golden Gate Bridge».

Successivamente, sarebbe divenuto il simbolo della città californiana, apparendo in pellicole di culto come Il mistero del falco, La donna che visse due volte e l’esilarante parodia di quest’ultimo e di tutta la filmografia di Hitchcock, Alta tensione, diretta da Mel Brooks nel 1976.

Chi crede che New York sia indissolubilmente legata al Ponte di Brooklyn ha un’imperfetta conoscenza della topografia locale. La metropoli per eccellenza è letteralmente costellata di strutture analoghe. Basti ricodare il Ponte di Verrazzano, il Ponte George Washington, il Ponte di Williamsburg e il ponte di Manhattan. Osservati in foto o da lontano, sembrano indistinguibili. Al contrario, ciascuno ha una fisionomia e una funzione nel sistema circolatorio di New York, sempre fluido malgrado l’imponenza e le diramazioni del traffico.

Vi sono infine alcuni modelli che potrebbero competere con le sette meraviglie del passato.

Si prendano le Keys, in Florida. Si tratta di un arcipelago composto da mille e settecento isole coralline. Su ben quarantacinque di queste passa l’Overseas Highway, un’autostrada sospesa, che «salta» da un lembo di terra all’altro per una lunghezza di centoventisette miglia. Comincia dall’isola più meridionale, Key West.

Nel Duemila venne aperto il ponte di 7.845 metri che unisce la Svezia alla Danimarca sull’Øresund. I ponti, perciò, hanno una mitologia più possente delle mere denominazioni.

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