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«Pizzica, non solo zinghe e zanghe»

 
ALBERTO SELVAGGI

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ALBERTO SELVAGGI

«Pizzica, non solo zinghe e zanghe»

Enza Pagliara, voce dell’Orchestra della Taranta: è il battito dell’essere umani

Lunedì 10 Agosto 2020, 14:17

15:08

 E così, dopo ventidue anni, Covid 19 ridurrà a una differita su Rai 2 il più famoso evento pugliese d’estate, la Notte della Taranta. Niente adunata di 200.000 pizzicati.

«Non c’erano alternative. Il Concertone che chiude il festival itinerante si terrà il 22 agosto a porte chiuse sul piazzale dell’ex Convento degli agostiniani a Melpignano. E verrà trasmesso il 28 dalla Rai. In questi giorni stiamo provando. Parte del programma si basa su quello eseguito per Christian Dior a Lecce in piazza Duomo durante la sfilata».

Lei, Enza Pagliara, dal 2001 è voce solista d’alta intensità dell’Orchestra popolare «La Notte della Taranta». Siete delle gran bestie da palco un po’ tutti quanti. Ma lei non sa che sta parlando con un odiatore.

«Ah».

Ormai siete ovunque. Pure se ti trovi a Honolulu e sorseggi brodino in un locale, niente niente salta su un vecchietto che mena strepiti e passi salentini mulinando il catetere come una bandana anti-berlusconiana.

«Sotto questo aspetto non le do torto, cioè, esiste ormai una diffusione tale che sfiora l’eccesso».

Però, ‘sta pizzica qua, fenomeno geniale, è talmente dilagante e politicamente convenzionale da sfiorare l’ossessione.

«Con il passare delle edizioni il fenomeno ha preso possesso delle scuole di danza, corsi di tamburello, organetto, a Brescia come a Taranto, a Mosca, a Londra. Anche grazie ai nomi internazionali, da Joe Zawinul a Suzanne Vega, da Stewart Copeland e Goran Bregovic a Phil Manzanera».

Secondo un sincretismo musicale non sempre azzeccato, vedi il pur elegantissimo chitarrista dei Roxy Music, o il direttore russizzato Fabio Mastrangelo.

«Spesso i maestri hanno poco tempo a disposizione. E noi siamo un’Orchestra anomala da integrare. Si metta nei loro panni: mica facile».

Io sono comunque pronto, per arginare il fenomeno, ad abbattere baresemente a tuzzi tutti li salentini tarantizzati.

«Mi sa che non potrà fare più di tanto. La pizzica è una musica che trova soprattutto nel ritmo la sua forza e l’universalità. Trascina il cinese, il milanese o il meridionale, il nuovaiorchese, il giordano, secondo una partecipazione empatica. Siamo stati in tournée praticamente in ogni angolo, pure a Cuba. E questa pulsazione fa vibrare la platea come un corpo unico, valica l’esperienza musicale, le tradizioni dei popoli, proponendosi quasi come esperienza mistico religiosa, della quale oggi siamo affamati. Perciò nelle stesse metropoli la gente si è ritrovata come in una micro-comunità. Una comunità che balla e canta. Noi siamo insieme, io siamo tutti quanti».

Ci ha fornito una spiegazione centrata. Però l’arcaismo musicale ha controindicazioni.

«A quali si riferisce?».

Tu ascolti un brano da un musicista pizzicato. E quello attacca: zinghe e zanghe, zinghe e zang. Allora domandi: ehi, bello ‘sto pezzo, me ne fai ascoltare un altro? E quello: certo, zinghe e zanghe, zinghe e zang. E ti pianta un concerto di due ore filate.

«Effettivamente dall’esterno qualcuno può avvertire una certa ripetitività. La prima e la quinta cadono sempre, LA e MI, DO e SOL, però ci sono riproposizioni anni Settanta che comprendono una parte in minore che apre a una sequenza in maggiore. E poi lei non considera una componente fondamentale ed estremamente variata, sfaccettata di suggestioni. E cioè la melodia, i versi».

Se lo dice lei, che è anche etnomusicologa, concordo. Ma li comprendono in pochi.

«A parte questo consideri la componente mediatica, il tipo di proposta che è internazionale, la pressione “pop”, le televisioni. Questa musica non è soltanto uno zinghe e zanghe come crede lei. C’è lo zinghe e zang ma c’è pure altro. Composizioni articolate proposte più raramente, essendo meno accessibili al grande pubblico. Un patrimonio, una tradizione molto vasti. C’è pertanto una tendenza a elementarizzare il linguaggio, la sua grammatica. In alcuni casi senza formazione adeguata. Nelle prime edizioni della Notte forse si era maggiormente inclini a valorizzare il cuore vero e il corpo di questa cultura. Ma il miracolo rimane: dare voce al popolo. Metterlo in cima al mondo. E noi dobbiamo riflettere su tutto questo, dobbiamo custodire il repertorio come bene prezioso, anche con corsi di formazione seri. Prima di cantare bisogna nutrirsi della tradizione, farsi cibo e quindi diventare canto».

Vi sentite investiti di una missione.

«Sì, è tale per me, è tale per noi. Crediamo nella responsabilità di dover divulgare un messaggio e di fronte a questo anche i soldi, la fama vengono dopo. O non esistono proprio».

Avete creato un fenomeno appropriandovi di una tradizione pugliese comune.

«Ciò che dice è esatto soltanto parzialmente. Le tarantelle sono in tutto il Meridione, io ho studiato a Bari Scienze dell’informazione e già nel ’92 o ’93 con un mio gruppo di lì intonavamo roba tipo All’acqua alla funtana, che dai canti salentini non differiva di molto. Ma lo spartiacque è nel morso, nel ragno, nella taranta e nei rituali arcaici musicali oggetto di studi. Nell’adesione identitaria di un popolo, esulando pertanto dal singolo episodio di possessione che magari si può riscoprire altrove. Nella materia scura che s’è fatta forma del Salento nostro».

La taranta è un inno alla salentinità. Nelle vostre adunate oceaniche spuntano striscioni Ultras Lecce, esibiti sulle scazzette dei tanti Giuliani Sangiorgi ‘mbriachi di mieru e carichi a canne.

«Errore, gli Ultras Lecce non sono alternativi dal pugno chiuso, anzi militano sul fronte politico contrario. A riprova che questa musica accomuna».

Ma la taranta resta marchiata rosso. L’ex sindaco di Melpignano Sergio Blasi e i vendoliani crearono dal niente un evento mediatico. Pure il turismo pugliese l’avete inaugurato voi da ‘sto cacchio di ragno su effetto domino.

«Questo lo penso anch’io. Blasi, con il comitato scientifico di allora, creò una rivoluzione. È storia patria, diciamo».

Eh. Perciò io alli salentini non li sopporto. La terra più bella e zeppa di nobili. Ville, castelli e mare allu top. Primi in turismo. Tutti i vip veri e gli intellettuali da voi. Il dialetto stesso votato come il più sensuoso. Dominate il pop, ci mancavano pure i Bumdabbasci (Boomdabash) con la sgambettante Alessandra Amoroso. Tradizioni studiate nel mondo. Lei stessa è rimasta bloccata in Australia per il virus, mentre era in tournée con Dario Muci, suo sodale che ha esumato dalla tradizione della barberia perle di musica.

«Sì, la tournée fu sospesa subito. Con Nauna Cantieri Musicali ci preoccupiamo però di diffondere qualsiasi musica di tradizione. Documenti archeologici sonori, materiale etnografico che sfata anche la sua fissa dello zinghe e zanghe che la insidierebbe dappertutto. Per esempio un libro con analisi e concerto raro di Matteo Salvatore, il disco Suddissimo, omaggio a lui e ad Adriana Doriani».

Ah, Salvatore: Foggia.

«Sì, però temo che lei mi odierà, a questo punto. Matteo Salvatore era di Apricena, ma questo disco è realizzato da musicisti salentini. Quindi pure qui ci abbiamo messo la zampetta nostra».

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