C’è qualcuno che pensa al dopoguerra? Kiev, dopo l’esplosione del camion bomba sul ponte verso la Crimea, dichiara, in queste ore, che i simboli del potere russo stanno colando a picco. Eppure questo scenario molto teso, con l’opinione pubblica spaccata in un clima sciocco da tifoseria, non ci impedisce di tornare a immaginare e a chiedere un orizzonte di pace, focalizzandoci su chi lavora in tal senso. Il «Centro per le libertà civili» di Kiev ha ricevuto il Premio Nobel per la pace e ieri ha tenuto una conferenza stampa per rispondere alle domande dei giornalisti (in lingua ucraina e inglese), e anche per ricordare al mondo intero che questo gruppo di persone, composto perlopiù da giovani donne, sta lavorando per il tempo del dopo, il tempo del dopoguerra, che ora, purtroppo, in questa fase molto delicata - a metà fra la minaccia nucleare e i probabili dialoghi segreti fra Russia e Stati Uniti - sembra ancora pericolosamente lontano.
I giovani ucraini come testimoni della storiaIl Centro, conosciuto direttamente, tempo fa, per la sua originale “scuola di diritti e di democrazia” è stato fondato nel 2007 per promuovere i diritti umani e la democrazia in Ucraina, durante un periodo di ben noti disordini nel Paese a est dell’Europa e «ha preso subito posizione per rafforzare la società civile ucraina e fare pressione sulle autorità, affinché l’Ucraina diventasse un’autentica e matura democrazia», così come ha dichiarato il presidente del comitato Nobel, Berit Reiss-Andersen. Poi questa ONG si è trovata a fare i conti con la violenta fase di guerra del 2014 e poi con l’assurda invasione dello scorso febbraio. Il focus dei giovani volontari, fino a quel momento tutto rivolto alla tutela della democrazia ancora acerba nel governo di Kiev, da quest’anno in poi, si è trasformato in qualcosa di molto più complesso, in una vera e propria missione storica. Da quel momento il loro ruolo è diventato documentario, proprio per far sì che i crimini compiuti dai russi sui civili ucraini non passino inosservati e non vengano dimenticati. Prima di raccontare nel dettaglio l’attività di questo gruppo, è doveroso dire che il premio è stato accolto anche con polemiche in Ucraina e il consigliere presidenziale Podolyak ha twittato che il comitato per i Nobel ha una singolare idea della parola “pace” se i rappresentanti di due paesi (Bielorussia e Russia), che hanno attaccato un terzo (l’Ucraina), hanno ricevuto il premio insieme.
E invece la motivazione è tutt’altro che strana: sintetizza chiaramente quella visione di mondo che vuole la pace non in maniera astratta e che è pienamente cosciente di come, anche fra i russi, ci siano tanti dissidenti verso il governo e i crimini di Putin e di come, anche fra gli ucraini, ci siano coloro, spesso lasciati a margine, che non condividono questa fase di escalation, volta peraltro a vanificare, ancor più, il grande appello rivolto, una settimana fa, da papa Francesco, tanto al Cremlino quanto a Zelensky.
Di che cosa ci parlano questi giovani? Quali crimini raccontano? Una delle documentazioni del Centro, relative ai fatti del 2014, si intitola Sopravvivere all’inferno e qui, questi giovani attivisti hanno tentato di documentare, con cura, i fatti del Donbass, così come stanno facendo nuovamente anche in questi mesi. Da qualche anno cercano di contrastare il vuoto giuridico e l’impunità di crimini compiuti in quelle aree. La loro portavoce racconta che i fatti di Luhansk e Donetsk, causati dalla Federazione Russa, hanno reso difficile la vita di tutti gli ucraini, i quali - da quel momento in poi - non si sono sentiti più al sicuro nelle loro case. E la dimostrazione di questa insicurezza, iniziata anni prima, è giunta, ancor più violenta, agli inizi del 2022.
La ONG premiata, invece, per anni, nella totale dimenticanza del panorama della politica internazionale, ha denunciato brutali violazioni in particolare nell’area di Donetsk, compilando una documentazione, anche fotografica. Le testimonianze delle vittime catturate e detenute, da loro raccolte, descrivono anni di totale mancanza di uno stato di diritto in quei territori, dove peraltro i testimoni oculari sopravvissuti raccontano l’incivile assenza di assistenza medica, di condizioni sanitarie di base, di alimentazione o di comunicazione con la famiglia o con gli amici nel resto del Paese. Eppure tutto questo nel 2014 interessò pochissimo l’Occidente, che non seppe intuire la gravità di quel “fattore russo” alle porte dell’Europa, derubricando quei fatti a un conflitto interno, totalmente privo di interesse per gli scenari globali. Occorrerebbe fare una seria raccolta di quanto fu dichiarato e scritto in quei giorni.