MATERA - Chiede di riaprire le indagini. La morte del padre, avvenuta l’11 gennaio 2013 nel reparto di Geriatria dell’ospedale di Matera, ha tanti, troppi lati oscuri su cui far luce. Ufficialmente è deceduto per «shock cardiogeno». Ma poi si è scoperto che aveva contratto quattro batteri, circostanza confermata dai referti batteriologici «di cui uno omesso, non individuato dai vari Ctu che si sono alternati». È solo una delle tante accuse lanciate da Maria Stella Silletti di Bernalda, figlia di Antonio, che parlando di «malasanità» si oppone all’archiviazione del caso decisa il 28 gennaio scorso e andrà avanti a tutti i livelli per cercare la verità. Silletti si sofferma su alcune questioni che meriterebbero di essere approfondite: «La cartella clinica - sottolinea Silletti - è stata vistosamente alterata, incompleta e a volte illeggibile. E con firme omesse. Più volte - aggiunge - è stata chiesta una perizia calligrafica, ma inutilmente. Eppure la cartella clinica è “atto di fede pubblica” e chi la sottoscrive è un pubblico ufficiale». Si trattava, secondo la donna, di analizzare la calligrafia di una mezza dozzina di medici operanti, in quei giorni, nel reparto dov’era ricoverato il padre: «Ma l’ospedale - precisa - ha perfino rifiutato di fornire i dati relativi alle presenze».
Nell’evidenziare che per quanto riguarda lo «shock cardiogeno dai marker cardiologici non sono emersi valori sballati», Silletti segnala anche che per fronteggiare l’aggressione batterica «è stata fatta una terapia fallace per quindici giorni, quando si sa che se dopo 48 ore non ci sono risultati bisogna cambiarla. Le terapie sono cominciate due giorni dopo con inescusabile ritardo. Non c’è stata, inoltre, alcuna consulenza infettivologica in sedici giorni di ricovero». Silletti precisa anche che i referti batteriologici è riuscita ad ottenerli solo grazie all’intervento del difensore civico: «Ho scoperto - aggiunge - che li aveva da tempo il medico legale».
Silletti ha l’anima sfregiata di chi ha visto anche la madre morire per setticemia dopo 37 giorni di ricovero in ospedale. Non si darà pace fino a quando non sarà fatta luce sull’accaduto, immersa com’è nei testi medici e di giurisprudenza per addentrarsi nei meandri della giustizia senza perdersi o farsi disorientare dalle terminologie tecniche. Farà di tutto per fare luce sulle reali cause del decesso. E per scavare in un caso giudiziario che, a suo dire, è stato archiviato per errore.