Nella nostra dialettale sintesi mi ronza nelle orecchie, anche nelle afe romane, la constatazione con vago sapore di lingua barese: «Il calore è assai». Perché un’estate accesa, come questa, non è cominciata a rigore di calendario, con tepori dolci, profumati e annuncianti dolci e voluttuose albe soavi, ma con frettolosa furia rovente. Ed è cosa da costatare con perplessità e con preoccupata sorpresa. Quella di tutte le estati da, almeno, un decennio fa? Nelle roventi spacconate dei pomeriggi del tempo in cui sudiamo con la minaccia dei 35 gradi all’ombra anche nelle Dolomiti, si distruggono culture quotidiane e tradizioni liquefacendo il tempo umano in rassegnato turbine di aria condizionata.
Il «calore è assai» e, forse, è il calore che ci squaderna le cronache estive che hanno sempre meno un sapore soave di fresche bibite servite dalla zia sotto il pergolato: il gusto evanescente della lepidezza. Sono cronache di tempi biechi e volgari, tempi di «vacanze», tempi di vuoto. Ammettiamolo: le vacanze non sono più l’eredità delle Smanie per la villeggiatura. La satira del Goldoni, fioriva di sorrisi e istigava a graziose voluttà. Oggi le «ferie» sono diventate date obbligatorie per voluttà molto più grevi, merce da trattare per eventuali scambi nel mercato del tempo libero. Le villeggiature s’aspettavano con languori ineffabili e con impazienza fanciullesca sbirciando un implacabile calendario che si ostinava a contare i giorni con fedeltà al solstizio. Il suo arrivo metteva nel cuore svagatezze sognanti e pruriti sotto la pelle mentre ci si compiaceva di registrare la brevità della notte pronosticando più tempo libero nelle lunghe e solari giornate del tempo bello, libero per curarci, finalmente, di noi stessi. E la notte di San Giovanni ci metteva addosso un tale senso di sensuale indolenza che il turbamento che ne seguiva, a volte, ci faceva sentire in colpa, la colpa segreta della giovinezza della quale ancora non sapevamo l’effimera e illusoria durata. Era, appunto, il tempo delle vacanze e, come pochi fortunati potevano, allora, civettare, annunciandola, della villeggiatura, dei turbamenti e degli ozi felici. Oggi sono «ferie» con una brutale convocazione nel lessico della burocrazia.
La retrouvaille, la carezza della memoria, è inevitabile. E ricordare, per esempio, il tempo in cui nelle frazioni di Bari si poteva «villeggiare» è amaro e amaramente inevitabile. Ricordo certe albe struggenti in cui la limpida tavolata di mare prendeva i colori dalla luce, prima esitante e poi prepotente, del sole che si levava sull’intatta solitudine del lungomare e, tra le minuscole onde di una compita risacca, un pescatore di «Jacca» alle prese con un dispettoso polpo o una prudente pelosa. Le villeggiature ti facevano vivere un ozio sobrio e modesto, senza lussi o sfrenatezza. Ed eri contento di quella pacata felicità, genuina come un gelato al limone da dieci lire comprato dal carretto bianco e celeste con le gelatiere lucide di cromatura. Da tempo, questi paesi sono frequentabili solo in autunno ed inverno, quando, in certi giorni di bonaccia salmastra, nel freddo veniale dei nostri veniali novembre dicembre o gennaio si poteva ritrovare il dolce smarrimento di certe solitudini adriatiche.
O, a primavera, in certi pomeriggi di sole mite si può ancora acchiappare il profumo di alghe pulite, risparmiate dal bitume o dall’immondizia del consumismo. Entrambi tracce di una dissennatezza umana senza scuse e riparo. Erano, questi posti, dei pezzettini di paradiso a portata di tutti. Provate oggi a visitare d’estate, i villaggi limitrofi a Bari, Palese e Santo Spirito, per esempio, luoghi a me carissimi, quei paesini che della città erano il corteggio gentile. Sono delle autostrade trafficatissime di rombanti scorrerie motoristiche lungo la costa massacrata da superfetazioni cementizie. La rigogliosa vegetazione sopravvive in segreto in certe superstiti villette, fortunosamente trasformate in fortilizi per ragioni a tutti ben note. E, a punteggiare la Promenade, oltre la balneazione mordi e fuggi, il traffico intenso intorno a stabulari della «frutta di mare» (così recita un’irresistibile insegna), parcheggi in doppia fila. E improvvisati barbecue. A proposito. Ho visto, anni fa, un geniale insediamento di una grigliata, devo ammettere, profumata di selvaggio arrosto, attizzata dal motore di uno scooter. La cosa mi fece tenerezza e pensai che non si può, così spesso, varcare la soglia di certe terrazze a mare per un pranzo come si deve. Mancano le risorse.
Ma, a proposito, mi piacerebbe essere smentito: leggo nel nostro giornale che si sta provvedendo a ristudiare le recenti modernizzazioni di pessimo gusto, per attrezzare e accudire modernamente la tradizione con studiato metodo civile. Dunque: parcheggi, ospitalità, pedonalizzazione! Salvare, dunque, la tradizione offrendola come patrimonio inestimabile. Anche quando «il calore è assai». Soprattutto, quando «il calore è assai»