Sono uno spettatore della televisione, ovviamente, critico. Rispetto una formazione culturale, naturalmente, ma, non solo, è preparazione professionale che annovera il mio mestiere di teatrante, regista e di autore e conduttore in radio e televisione. Dunque, non mi riesce di subire passivamente da spettatore pigro e rassegnato, il prodotto televisivo, la complessa segnaletica che lo struttura, il codice con cui si esprime e comunica. E sto lì, oltre che a seguire il programma, ad indagare il comportamento dei protagonisti, il movimento delle telecamere, il montaggio del racconto, anche in diretta, gli «stacchi» del regista, tutto quel complesso sistema semiotico che traduce la realtà in messaggio televisivo.
Di recente, mi son trovato, di fronte allo schermo acceso sul programma in cui chi conduceva (non dirò, neanche sotto tortura, il nome e la rete) ospitava «ospiti abituali» accomodati in un salotto esagerato. Diciamo che l’ho dimenticato perché non sempre il palinsesto è in cima ai miei pensieri, soprattutto in questo periodo di burrasche politiche molto accese. La mia visione è stata, al solito, tormentata dall’attitudine a non ratificare supinamente lo spettacolo televisivo, ma a studiarlo tecnicamente. E, naturalmente, tra l’altro, non poteva sfuggirmi, oltre la pessima tecnica del parlarsi addosso e sopra agli altri interlocutori, il reiterato sfruttamento del «piano d’ascolto» per smentire, dissentire, far sentire anche senza emettere parole, ma solo qualche suono inarticolato, bofonchi, borborigmi, risatine. Se non sono occupati a «messaggiare» col telefonino.
Che cosa è il «piano d’ascolto»: è quell’inquadratura che l’operatore alla camera propone e che il regista, se decide, «stacca», cioè, manda in onda quando il soggetto sta ascoltando un altro che parla non inquadrato. Nella tecnica del cinema si usa normalmente in quella modulazione del racconto che si chiama «campo e contro campo» e consente di far esprimere gli attori con il volto le emozioni, i pensieri, le sensazioni dei personaggi. Recitano, insomma. Nella vita si ascolta, in cinema e televisione si fanno i piani d’ascolto. Questi, nei dibattiti tivvù, sono tempo rubato a chi sta parlando perché i furbacchioni, quando si accorgono di essere inquadrati (appositi servitori glielo segnalano) assumono espressioni, fanno smorfie, ridono sardonicamente, fanno gesti, inarcano il sopracciglio, fanno bum con le guance, recitano, insomma. Ma recitano male e con goffaggine: riescono a danneggiare l’avversario ma non seducono il pubblico, lo intontiscono di sberleffi e confondono il dibattito. Non sono attori, tutto qui. Essendo a digiuno di tecniche e preparazione, trasformano il dialogo in litigio e baccano, il dramma, in farsa. E oltre ad essere dei guitti da strapazzo, sono anche maleducati. Questa, la «narrazione»: sostantivo corroso dall’eccessivo, orribile uso che, sproloquiando, scelgono gli «ospiti» di professione.
Karl Kraus sentenzioso, ma acuminato, ricordava: «L’educazione è ciò che la maggior parte delle persone riceve, molti trasmettono e pochi possiedono». Proviamo a sostituire la parola educazione con la parola istruzione e sortirà un effetto di significato assai attuale. A Roma per dire maleducato si dice «ignorante». E un solecismo romanesco gergale e umoristico avverte: «La gente sono ignoranti». Ho consultato mentalmente Kraus durante la contemplazione del mistero doloroso dello scontro televisivo tra più protagonisti che non nomino. Trovando insopportabile il ghigno del primo quando faceva le facce o squadernava sorrisi finti, in piano d’ascolto, facevo vagare lo sguardo altrove, nella mia biblioteca, sperando che la raccolta di aforismi di Kraus fosse a portata di mano. Ed ho trovato il sollievo di ritrovare il libro: stava lì, sbilenco, a fianco a La televisione spiegata al popolo di Campanile.
Giorni fa mi ha rincuorato un amico caro: mi ha salutato nel gergo gentile della discrezione tra artisti: cioè senza annunci. Era lo speciale TV di Renzo Arbore su Rai Play: «Come ridevamo». Con Gegè Telesforo squadernano un repertorio geniale e indimenticabile della Televisione fatta bene e senza smorfie artificiali. Come tanti Italiani, ho potuto constatare, in realtà, un fenomeno sociologico. Renzo ha restituito a tutti, ma segnatamente agli smemorati una prova inoppugnabile che si può, ebbene, si, si può fare una televisione intelligente e leggera, utile e divertente con quel mestiere dello spettacolo che, in Italia, ha espresso glorie e storici successi: l’improvvisazione. Ma, attenzione, l’improvvisazione non vuol dire annaspare nell’impreparazione, vuol dire arte, intuito, sagacia, cultura, capacità di operare su lingue e linguaggi per architettare una moderna commedia dell’arte. E ci vuole mestiere. Tutto all’insegna luminosa del buon gusto. Un signore dello spettacolo, signore estroso, duttile, spiritosissimo, pieno di talento teatrale e colto, ha fatto riflettere su questioni impegnative di carattere sociologico: Renzo Arbore. Era una scena ambientata in «Aspettando Sanremo». C’ero anch’io.