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Il professore Felice Giuffrè: «La svolta presidenzialista antidoto alla crisi dei partiti»

 
Michele De Feudis

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Michele De Feudis

«La svolta presidenzialista antidoto alla crisi dei partiti»

Così il docente ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell'università degli studi di Catania e consigliere laico del Csm

Mercoledì 10 Maggio 2023, 16:00

16:06

Professor Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico nell'Università degli Studi di Catania e consigliere laico del Csm, il dialogo sulle riforme è al centro del dibattito politico. Da cosa nasce la richiesta di modernizzazione istituzionale?

«Da una circostanza precisa: la nostra Costituzione era fondata su alcuni pilastri. Tra questi assumeva una rilevanza fondamentale il partito politico. Non dimentichiamo che sul finire della seconda guerra mondiale e nel corso della guerra civile la continuità dello Stato fu assicurata proprio dai partiti. Nel momento in cui i costituenti scrissero la Carta, la fondarono su una cinghia di trasmissione costituita dalle organizzazioni politiche, fortemente legittimate nella comunità e profondamente radicate nel territorio. Questo elemento per una serie di circostanze, a partire dagli anni novanta, si è trasformato sensibilmente e per tale ragione la nostra forma di governo è divenuta instabile e in qualche misura “claudicante”. Non a caso, a partire dal crollo del Muro di Berlino e da Tangentopoli, si tenta di immaginare riforme condivise».

Il premier Giorgia Meloni ha indicato la linea: «legare chi governa al consenso popolare». L’elezione diretta del capo del governo, per la destra, è una battaglia antica. Nasceva come critica alla partitocrazia nella prima repubblica del Msi di Almirante e del repubblicano Randolfo Pacciardi…

«In quegli anni il Msi tentava di rompere l’arco costituzionale che lo escludeva, per rimettersi in gioco. Ora invece prevale l’esigenza di rilegittimare le istituzioni governative, in crisi anche perché è venuto meno il cemento dei tradizionali partiti di massa».

Giuseppe Tatarella editava la rivista riformista “Repubblica presidenziale”… Quali i modelli - Francia, Usa, Israele o Germania per elencarne solo alcuni - a quale bisogna guardare per efficienza e equilibrio tra i poteri?

«Non esiste una forma di governo migliore delle altre. Bisogna comprendere quale si adatta alle caratteristiche di un sistema politico. La forma parlamentare unita al sistema proporzionale era la più adatta nel 1946-47, quando c’era una forte frammentazione politico-ideologica, c’era la necessità di recuperare a destra e sinistra le forze antisistema, per canalizzare nelle Camere le forti tensioni che dividevano la società: si trattava di una formula tesa alla ricerca di una mediazione virtuosa. Oggi nessun partito è antisistema, ci ritroviamo in un quadro di valori condiviso, nonostante le normali divisioni culturali, e quindi si può superare la forma di governo parlamentare per transitare verso uno schema che assicuri maggiore governabilità, con un “continuum” tra corpo elettorale, Parlamento e Governo. Del resto, questo già avviene con l’elezione diretta dei presidenti di Regione e dei Sindaci. Non credo ci siano cittadini che rimpiangano la forma di governo parlamentare che era prevista prima degli anni novanta anche a livello territoriale».

Il dialogo con le opposizioni: allo stato il Pd chiude a ogni ipotesi di elezione diretta…

«Il dialogo va ricercato, ma non può bloccare un processo di riforma. La strada la detta la costituzione con il 138, articolo che spiega come modificare la Carta con un procedimento rafforzato e altamente garantista. Se nella seconda deliberazione della riforma, per esempio, non si raggiunge la maggioranza dei due terzi, non si va al referendum. Se in seconda lettura la riforma è approvata con la sola maggioranza assoluta è possibile, invece, ricorrere al referendum costituzionale. Quindi i Costituenti avevano già ipotizzato che sulle riforme ci potesse non essere l’unanimità. La strada per il cambiamento è già segnata nella Carta».

A che punto è invece il dibattito accademico tra scienziati costituzionali?

«Ci sono due schieramenti: c’è chi considera più opportuno rimanere nell’alveo di una forma di governo parlamentare, con punte di vero e proprio “conservatorismo costituzionale” (tra tutti, ad esempio, Zagrebelsky), e c’è un’altra parte della dottrina che ritiene giunto il momento di andare nella direzione di una democrazia governante».

Molti evidenziano il ruolo di equilibrio del Quirinale. Cosa ne pensa?

«Il nodo è assicurare la legittimazione dal basso dell’Esecutivo e delle assemblee rappresentative. In questo contesto sarebbe opportuno mantenere il ruolo del Capo dello Stato, come garante».

Come valuta l’ipotesi di una Assemblea costituente eletta dal popolo?

«Viene convocata in caso di grandi fratture costituzionali. Non mi sembra il caso italiano. La Carta offre tutti gli strumenti per una revisione sufficientemente condivisa».

La riforma presidenzialista può controbilanciare quella dell’autonomia differenziata?

«Un esecutivo legittimato in modo forte dal corpo elettorale può dare stabilità al sistema e diventa naturalmente un contrappeso rispetto ad eventuali spinte centrifughe. In tutti gli stati federali - Usa o Germania, per esempio - ci sono strumenti che consentono, in casi di emergenza di centralizzare le competenze. Come è stato da noi durante il Covid. In uno stato sociale c’è sempre (e non potrebbe essere diversamente) la possibilità di ri-accentrare i poteri quando sono in discussione i diritti civili, politici e sociali».

Al Sud l’autonomia suscita sentimenti contrastanti: c’è chi la ritiene una opportunità e chi la via maestra per un ulteriore impoverimento. Come stanno le cose?

«Non devono prevalere i pregiudizi. Il rafforzamento del principio autonomista può andare bene se ci sarà una equilibrata distribuzione delle risorse. E’ essenziale stabilire, nelle materie oggetto di ulteriore decentramento politico, i costi standard dei servizi e i cosiddetti Lep. Non si può certo fare il decentramento sulla base della spesa storica, che avvantaggerebbe solo le regioni del Nord».

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