Prof. Giovanni Orsina, autore di «Una democrazia eccentrica. Partitocrazia, antifascismo, antipolitica» (Rubbettino) e direttore della Luiss School of Government, il nuovo governo e la sua postura è radiografato dai politologi. Le sembra in continuità con il centrodestra post 1994 o è un laboratorio di un neoconservatorismo?
«In parte è in continuità, in parte no. La continuità con il berlusconismo emerge dalla composizione del governo, con vari ministri che erano stati nei governi del Cavaliere. Ma soprattutto, la parte del discorso di Meloni sullo Stato che deve lasciar campare, e misure come l’innalzamento del tetto al contante, evidenziano temi berlusconiani allo stato puro».
Sfumature neoliberiste?
«Se le vogliamo nobilitare, riportandole al clima degli anni ottanta. Ma c’è anche qualcosa di molto italiano, più qualunquista che liberista, per così dire, in linea con un’opinione pubblica che considera lo Stato troppo invadente… L’elettorato di destra non è mai stato capito, perché viene letto con le lenti con cui si interpreta quello progressista: in realtà, è molto meno politicizzato. Non gli interessano le sfumature, e può passare da Berlusconi a Salvini alla Meloni, transitando magari per i Cinque Stelle, senza colpo ferire. La politica, per quegli elettori, è una cosa complicata, esoterica, poco interessante. A loro può bastare che rompa meno le scatole: meno regole, meno tasse, immigrazione sotto controllo, e i “comunisti” del Pd all’opposizione».
Il primo viaggio della Meloni è a Bruxelles. Che valore simbolico ha?
«La continuità coi governi Berlusconi implica pragmatismo e capacità di confrontarsi con i vincoli del momento storico. Anche Berlusconi era spesso euroscettico a parole, ma Fi era nel Ppe. La Meloni già da mesi ha questo stile dialogante, diverso da quello che aveva quando era al 4%. Va a prendere contatto a Bruxelles con i vertici dell’Unione, mostrandosi disponibile a lavorare insieme, ragionando sulla legge di Bilancio e sullo scostamento, che dovrà essere superiore a quello immaginato da Draghi. Lì discuterà anche del dossier energetico. L’obiettivo è perseguire pragmaticamente gli interessi comuni».
L’incontro con Macron?
«Qui si misura la complessità della costruzione europea: Macron e Meloni sono le massime autorità esecutive di due paesi fondatori dell’Ue con interessi in comune molto forti, e non possono non dialogare. Ma sono anche capi politici: il nostro premier guida uno schieramento europeo che Macron spera non venga mai legittimato in Francia, per non dare spazio a Marine Le Pen. I media francesi poi sull’Italia non hanno capito nulla, hanno fatto un pessimo lavoro costruendone una immagine del tutto fuorviante. Da qui il dialogo fra i due, ma anche lo scontro».
Conte vede la Meloni in continuità con Draghi.
«C’è una linea comune, c’è la continuità con il ministro Giancarlo Giorgetti, un draghiano “promosso” nel nuovo esecutivo. Ma soprattutto, oggi l’agenda politica italiana è per l’80% guidata dall’emergenza energetica, dall’inflazione. E c’è un solo modo per affrontare l’emergenza, non ce n’è uno meloniano e uno draghiano…».
L’identità di questa destra di governo?
«Qui veniamo alla discontinuità rispetto al berlusconismo liberale: il più forte nazionalismo economico e, sui temi etici, una linea più conservatrice. La destra è un cantiere aperto: oggi c’è bisogno di conservatorismo, perché la crisi in corso nei processi di globalizzazione genera una forte richiesta di identità, confini, protezione, Stato nazionale. Ma non c’è più un conservatorismo, perché dagli anni Ottanta la destra è cambiata, insistendo molto sul mercato, ossia assumendo una colorazione neoliberista. Insomma: bisogna ripensare un conservatorismo adeguato al ventunesimo secolo. Meloni vince incontrando una domanda a cui non sa ancora dare una risposta».
La politica internazionale e la guerra: non c’è grande sintonia nel centrodestra, dopo gli audio di Berlusconi…
«Sia Salvini che Berlusconi hanno votato tutti i provvedimenti del governo Draghi. Alla resa dei conti, si possono criticare le sanzioni quanto si vuole, ma nelle decisioni non ci sono alternative alla lealtà all’Alleanza Atlantica. Ci saranno distinguo ma niente di più».
Il racconto autentico della Meloni d’opposizione ha avuto venature populiste. In parte emerse nei discorsi alle Camere. Cosa resterà di questa sensibilità nei prossimi mesi?
«Non ho mai pensato che Fdi fosse populista, semmai è una destra classica con alcune venature populiste. Sul terreno dell’antipolitica non rimarrà molto: Meloni interpreta semmai una nuova richiesta di politica, un leader che sappia difendere l’interesse nazionale anche prescindendo dagli umori popolari. Resta la retorica dell’underdog: la gente comune contro i grandi centri di potere, la politica contro l’economia, la legittimazione popolare contro gli “gnomi di Francoforte”. Ma resta con molta cautela, perché poi i banchieri ti mandano a gambe all’aria, e questo non è nell’interesse nazionale…».
Il congresso del Pd è alle prime battute. La destra di governo per eterogenesi dei fini accelererà la ridefinizione delle identità a sinistra?
«Sì, ma ci sarà molto da lavorare. La cultura progressista mi pare francamente a pezzi, incapace di comprendere un mondo in cambiamento. Ed è a pezzi pure la politica del Pd. Ci vuole una grande opera di ristrutturazione, con un ripensamento prima culturale, che risponda alla domanda “che cosa vuol dire stare a sinistra?”. Poi andranno sciolti i nodi dei rapporti tra dem e Cinque Stelle. Ma siamo all’anno zero».
L’antifascismo, stante le ricorrenze storiche che generano inevitabili dibattiti, costruito sulla ricerca di un “eterno fascismo” alla Eco, non può diventare un mito incapacitante del campo progressista?
«Sì. L’uso politico del pericolo fascista, oggi, è una follia. L’antifascismo ha sempre fatto fatica a diventare un principio unificante per la Repubblica. Durante la Guerra Fredda è stato utilizzato dal Partito comunista italiano per rilegittimarsi. Ma questo ha creato una mancata corrispondenza fra l’area dell’antifascismo e quella dei valori democratici: la prima includeva il Pci, la seconda no. Dopo il 1989 l’antifascismo è stato usato contro Berlusconi, considerato l’ultima incarnazione del “fascismo eterno” di Eco. Morale: a forza di usarlo politicamente, lo si è reso inutilizzabile. Oggi i tre quarti dell’elettorato se ne infischiano del pericolo fascista. E la sinistra, più lo usa, più si condanna a restare minoritaria».
















