Professor Stefano Ceccanti, ordinario di Diritto pubblico comparato nel Dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Roma «La Sapienza», quale profilo del nuovo governo emerge dopo la presentazione della lista dei ministri e i due discorsi del presidente Giorgia Meloni alle Camere?
«È un esecutivo che ha cambiato in buona parte le posizioni iniziali, soprattutto sull’Ue, dove ha capovolto la linea. Prima si evocava meno Europa e il primato del diritto interno su quello dell’Unione. Ora si teorizza di far valere l’interesse nazionale dentro una crescita dell’Unione».
Cosa cambia nella visione?
«La destra sta facendo i conti con la realtà. E questo passaggio viene compensato da altri elementi simbolici».
A cosa si riferisce?
«Penso ai nuovi nomi dei ministeri o ad alcune scelte di personalità che nella biografia hanno posizioni estreme su temi di diritto interno, come Alfredo Mantovano e Eugenia Roccella».
Il premier sul fronte diritti si è espressa più volte.
«Ma non si andrà avanti nel riconoscerne di nuovi. E allo stesso tempo non si toccherà l’esistente. Sarà difficile fare una legge sul suicidio assistito certo, ma non saranno toccate le leggi sulle unioni civili, che hanno un largo consenso tra gli elettori di centrodestra».
Quale modello internazionale per il melonismo?
«È ancora indefinito. Ma mentre fino alle elezioni la Meloni guardava più alla Polonia che all’Ungheria - perché Varsavia è fortemente anti-russa - ora c’è una disponibilità ad avere buoni rapporti con i paesi della zona euro, con un avvicinamento alle visioni politiche del Ppe. Uno sfondamento al centro favorito dalla debolezza dei centristi e dalle esternazioni di Berlusconi pro Putin».
Il rapporto con Ue passa anche dal Pnrr.
«Mi sembra che la posizione sui fondi europei andrà verso la proposta di ritocchi mirati. La destra ha capito che il piano non è reversibile. È già complicato attuarlo nei tempi e con i vincoli richiesti. Vanno evitati giudizi negativi e non ci si può permettere l’incertezza di una nuova discussione in sede comunitaria».
Il tema delle riforme costituzionali: il presidenzialismo ha una radice eversiva?
«No, ma le riforme dovrebbero assecondare i processi reali, quando sono positivi. Abbiamo avuto con questa elezioni una legittimazione di fatto del governo, l’esecutivo è scelto dagli elettori. Per questo non mi sembra il caso di lavorare su un modello di elezione diretta del presidente della Repubblica, ma sulla presidenzializzazione del ruolo parlamentare, con il primo ministro legittimato dal voto dei cittadini».
La politica estera del governo risente della ricerca di una linea comune nel centrodestra. Come si trova la quadra, a partire dall’Ucraina?
«Saranno costretti a mettersi d’accordo, perché coloro che la pensano diversamente non lo possono dire in pubblico. Berlusconi e Salvini non possono affermare pubblicamente la loro comprensione positiva delle ragioni di Putin».
Verso Kiev?
«L’Italia non cambierà linea, anche perché non c’è una posizione alternativa. A meno che non si parli di “resa” per gli ucraini, ovvero una resa per tutto l’Occidente, che potrebbe preparare il terreno ad altre aggressioni».
La Meloni ha costruito la sua ascesa su una narrazione (anche) populista. Ora cambia tutto?
«Ci sarà la tentazione di trovare qualche elemento populista per mostrare la discontinuità rispetto alla continuità con il draghismo su Ue e Ucraina».
Il Pantheon della Meloni ha colpito nel segno: da Enrico Mattei a Paolo Borsellino, passando per Roger Scruton e tante donne illustri come Nilde Iotti o Samantha Cristoforetti…
«Nel suo campo, quello del centrodestra, indubbiamente ha oscurato i leader alleati. Salvini e Berlusconi sembrano retaggio del passato. Ha compiuto un'operazione di egemonia culturale e politica all’interno della coalizione. Ora l’elettore di destra si riconosce nella Meloni anche se ha votato Lega o Fi. Il capo del Carroccio e l’ex premier avevano provato a costruire un polo liberalconservatore, ma non ci sono mai riusciti».
Si discute dei simboli della destra.
«Converrebbe al premier togliere la Fiamma. Se vuole egemonizzare la coalizione, la persistenza di quel simbolo rende tutto più difficile. La transizione dei postfascisti nella Repubblica però era già compiuta con Fiuggi e le tesi di Domenico Fisichella. Quello che restava pericoloso era il nazionalismo euroscettico, che sembra in questa fase marginale».
A livello internazionale ci saranno altre “correzioni” di rotta?
«C’è stato un certo avvicinamento con il governo francese, e in futuro saranno inservibili i riferimenti alla Polonia e all’Ungheria. Il governo sarà spinto sempre più ad avere un atteggiamento positivo con il centrodestra democratico. Le forme si scopriranno strada facendo».
Il centrodestra sta cercando compattezza. Sul fronte opposto comandano le divisioni?
«Le diversità nel centrosinistra non sono più marcate di quelle dei tre partiti del centrodestra, ma si fa fatica a favorire un processo di integrazione. C’è una convergenza del M5S e dei centristi nello spartirsi le spoglie del Pd. In questa fase c’è un attacco a tenaglia al Nazareno. Col piccolo problema che se fosse la fine dei dem, ci sarebbero due opposizioni ancora più distanti, senza un partito centrale nel ruolo di calamita: ovvero la condizione ideale per un governo di centrodestra, minoritario nel paese, ma a lungo al potere…».
Cosa si attende dal congresso nazionale dem?
«Deve rilanciare un partito capace di essere unificante all’opposizione, deve smentire le narrazioni di 5S e centristi. Ci vuole una leadership forte, che vede emergere il capo del Pd e anche l’aspirante premiership. I dem hanno lo strumento per compiere questa strada: mi riferisco alle primarie aperte che mettono in movimento tutti gli elettori del centrosinistra, collegandoli alla scelta rigenerante».