C’è un Mezzogiorno che arranca e non tiene il passo della competizione globale. Ma anche la «Terza Italia» soffre con gli affanni di Umbria e Marche. Poi c’è l’allarme che arriva dalle aree interne di tutto il Paese con 13 milioni di italiani in deficit di opportunità, lavoro e servizi. E infine - il primo fra tutti i drammi - sei milioni di persone precipitate in una condizione di povertà assoluta.
In un’Italia a tante, troppe velocità la tendenza sembra quella di differenziare ancora, quasi le disuguaglianze non fossero già troppe. Su questo riflette il nuovo numero della rivista «Storia Economica» curata da Filippo Sbrana, milanese, storico dell’economia all’Università per Stranieri di Perugia e autore del fortunato saggio Nord contro Sud. La grande frattura dell’Italia repubblicana (Carocci 2023). Insieme a lui scrivono studiosi autorevoli come Francesco Dandolo, Andrea Cafarelli, Donatella Strangio, John Davis, Toni Ricciardi e altri, analizzando temi di grande attualità: non solo autonomia e regioni ma anche criminalità e immigrazione. «Questo numero della rivista - racconta Sbrana - nasce dalla riflessione fatta con alcuni colleghi storici durante la discussione della proposta sull’Autonomia differenziata. Da una parte seguivamo i contenuti, dall’altra siamo stati colpiti dalla mancanza di storici nel dibattito. A ogni livello. Sia istituzionale che sui grandi media».
Professor Sbrana, partiamo proprio da qui: perché gli storici sono stati esclusi dal dibattito?
«Viviamo in un tempo schiacciato sul presente: qualunque tema si affronti nasce nell’oggi e va risolto nell’oggi. E questo indebolisce molto la profondità della discussione ed elimina elementi di comprensione dei fatti. Non mi riferisco solo alla lezione dei grandi meridionalisti come Gramsci e Sturzo. Anche tanti decisori del passato, per esempio Nitti o Saraceno, compivano le proprie scelte guardando al passato. Se non tieni conto di esperienze, mancanze, errori, buone pratiche già collaudate, oltre all’importanza di costruire un Paese unito, perdi il senso dello stare insieme in un progetto comune».
Cosa ci insegna il passato?
«Negli ultimi cinquant’anni hanno cambiato di senso alcuni aspetti importanti della storia del Paese. A cominciare dal regionalismo. Le Regioni vengono istituite nel 1970 in uno spirito di forte unità nazionale. Negli Statuti di alcune Regioni del Nord, come Piemonte ed Emilia Romagna, lo sviluppo dei Mezzogiorno è indicato come un loro obiettivo, in una prospettiva di unità nazionale».
Qual è il punto?
«Le Regioni non sono mai state pensate in un’ottica di separazione dei destini: servivano ad amministrare meglio, ma non c’era l’idea di concorrenza tra i territori. Con il passare degli anni ha preso piede l’idea che ogni Regione va per conto suo ma la Corte Costituzionale, nella sentenza 192/2024 sulla legge Calderoli, ha ricordato che non esiste in Italia un regionalismo competitivo. Ne esiste uno cooperativo».
Ma le Regioni sono davvero un esempio di efficienza?
«Partirei da alcuni esempi. La Cassa del Mezzogiorno, innanzitutto, da un certo punto in poi aspramente criticata da alcuni segmenti del Nord che la definirono un “carrozzone”. Ebbene, la Cassa ha perso efficienza negli anni Settanta, proprio quando le Regioni hanno iniziato a orientare le sue scelte. Fino ad allora era un organismo con visione nazionale, poi i terrori hanno iniziato a chiedere risorse solo per progetti propri senza avere neanche il personale qualificato. E così le logiche sono diventate clientelari».
L’elenco, sospettiamo, potrebbe continuare...
«Da quando sono state istituite le Regioni il debito pubblico è cresciuto moltissimo perché spendono molto di più di quanto incassino con le tasse. Poi c’è la sanità, da tempo regionalizzata: ci sono stati moltissimi piani di rientro e diversi commissariamenti in tutta Italia. E tutti hanno visto come fosse impossibile affrontare la pandemia da una prospettiva regionale. Ancora, non hanno saputo contrastare fenomeni di malagestione e chiudo ricordando che le consultazioni regionali sono quelle che i cittadini disertano di più. Evidentemente non le sentono così vicine».
A fronte di tutti questi elementi cosa si desume?
«La Consulta, come pure la Bankitalia, ha chiesto di subordinare il trasferimento di funzioni a una valutazione in termini di efficienza. Non è mai stata fatta. E qualche dubbio viene. Se guardiamo la storia vediamo molta inefficienza».
Arriva l’obiezione: molti Paesi, anche europei, decentrano.
«Vero, ma in tutti i Paesi del mondo la priorità è sostenere le aree che hanno più difficoltà a competere. Non dare più risorse a chi già compete bene. E, guardi, non mi riferisco solo al Mezzogiorno che pure, ogni volta che è stato sostenuto, dalla Cassa al Pnrr, ha prodotto risultati positivi».
Chi altro se la passa male?
«Ad esempio Umbria e Marche, la “Terza Italia” che un tempo era un modello. L’Umbria ha perso 70 posizioni nella classifica europea delle Regioni, le Marche 50. E infatti il governo le ha inserite nella Zes unica. Ma pure il Piemonte è precipitato nella serie B delle regioni continentali. Quindi il problema è più ampio del solo Sud».
Quindi, professore, se la priorità non è differenziare, allora qual è?
«Lo dice chiaramente l’articolo 3 della nostra Costituzione. La vera sfida è sostenere e non abbandonare chi si trova in una condizione di difficoltà. E aiutare tutti i territori a competere senza, ovviamente, mortificare chi già lo fa. Vale per il Sud e vale per tutti».
















