Nel 1983 il trio Spadolini, Pannella e Zanone riuscì a strappare il 10,2% dei consensi. Un record elettorale per il mondo che si ispira al liberalismo. Ma come tutti i primati anche questo è caduto. Il 25 settembre scorso un altro «tridente» - cioè quello composto da Carlo Calenda, Matteo Renzi ed Emma Bonino - ha portato a casa il 10,6% dei voti alla Camera. «Certo, Azione e +Europa non correvano insieme ma se sommiamo le percentuali in base all’affinità politica ecco che si tratta del risultato migliore mai registrato da partiti liberali», è l’analisi di Alessandro De Nicola, economista e presidente della «Adam Smith society» ma soprattutto pensatore di riferimento del mondo liberal-liberista.
Professor De Nicola, come si spiega questo risultato?
«In alcuni settori della società è montato un certo scetticismo verso le ricette populiste. Al tempo del governo gialloverde Lega e M5S, insieme, superavano il 50% dei voti. Oggi non arrivano al 25%. E poi, pur tra errori e limitazioni, Mario Draghi ha dato un buon esempio di governo da una prospettiva liberaldemocratica».
Tutto questo è sufficiente a motivare il salto?
«Ci sono anche altri fattori. Questa volta, meglio di altre, i liberali sono riusciti a convincere i settori più colti, produttivi e dinamici dell’elettorato, sottraendoli all’astensione. A cominciare dai giovani».
Ecco, i giovani. Una novità...
«Quasi una rivoluzione. Finora l’elettore liberale per eccellenza era il professionista di mezza età. Ora, invece, a muoversi in quella direzione sono i ragazzi, probabilmente per alcune posizioni nette sui diritti civili, tema a loro molto caro, e perché l’area viene percepita come nuova e dinamica».
Ciò di cui parliamo però avviene soprattutto al Nord con punte del 30% a Milano. Il Sud non è terra per liberali?
«Non è detto. Innanzitutto è necessario togliersi dalla prospettiva un po’ nordista e di comodo secondo cui nel Mezzogiorno sono tutti col cappello in mano ad aspettare il reddito di cittadinanza. Il tema c’è, come dimostra il successo del M5S, ma non in questa misura».
E poi?
«E poi bisogna diffondere la cultura delle opportunità. Ci sono moltissime persone, soprattutto giovani, che vorrebbero che anche al Sud ci fosse la possibilità di sviluppare il proprio ingegno. Invece si ritrovano, per così dire, con il peggio dei due mondi: uno Stato che non li protegge come dovrebbe dalla criminalità ma in compenso è presentissimo quando si tratta di burocrazia e balzelli. È un corto circuito che va spezzato e i liberali potrebbero realmente fornire risposte. Non è una sfida semplice ma se penso a Puglia e Campania mi sento ottimista».
In ogni caso, professore, Nord o Sud che sia, parliamo di partiti che si sono presentati divisi.
«Vero, ma il risultato incoraggia ora alcune iniziative. Innanzitutto, Azione e Italia viva dovrebbero unirsi. E poi fare cartello con +Europa nonostante quest’ultima sia la più delusa e avvelenata dal risultato elettorale. All’orizzonte però ci sono le Europee e tutti questi partiti corrono per il gruppo di Macron, Renew Europe».
È il «centro pigliatutto» di Marcon il modello cui ispirarsi?
«L’elettore liberale vuole unità, come detto, ma anche autonomia. Votare qualcuno perché poi faccia la stampella ad altri, magari proprio a quelli che non ci piacciono più, è una prospettiva poco allettante. Basta essere la succursale liberista del Pd, la “Coca zero” della Coca cola».
D’accordo, ma da soli dove si va?
«Le alleanze servono, è chiaro, almeno all’inizio, ma devono essere fatte sulla base dei programmi e, in parte, dei nomi. Ma, ripeto, conta l’autonomia. Solo così si diventa attrattivi anche verso i liberali, e ce ne sono, presenti in altri partiti».