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Il processo è già una pena e riguarda l’uomo, non diventi lotta politica

 
mimmo mazza

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mimmo mazza

Il processo è già una pena e riguarda l’uomo, non diventi lotta politica

Tutti, ognuno per le sue competenze, dovrebbero fare il possibile per attenuarne gli effetti, dando mezzi e risorse alla macchina della giustizia

Domenica 26 Gennaio 2025, 11:10

Per tutti – innocenti o colpevoli (come li sapremo nell’ora della decisione) – il processo è una pena. La grande letteratura ha avvertito, e tradotto in angosciose narrazioni, la sofferenza del processo, il soggiacere a un potere senza volto e senza nome, a una violenza impersonale, che sovrasta tutti, e di volta in volta sceglie e colpisce singoli «imputati», includendo in questi ultimi pure le parti civili. Questo è, per usare l’immagine acutissima di Albert Camus, l’«universo del processo», l’universo delle società contemporanee, sempre più sospettose e inquisitorie, in grado di indagare sul presunto autore di un reato come su chi quel reato lo avrebbe subito.

La letteratura ha colto la ineluttabile tragicità dell’attesa, il peso di una domanda, che talvolta non si conosce o non si comprende.

Il celebre libro di Franz Kafka, Il Processo, risale al 1925, ed è romanzo di una sofferenza che non si scioglie e di una misteriosa domanda che invano attende risposta. È appena del 2017 il racconto suggestivo di Andrea Salonia, incentrato sulla vicenda umana e processuale di un alto dirigente dell’Ilva di Taranto, dove già il titolo esprime l’angoscia dell’attesa, «Domani, chiameranno domani».

La sofferenza del giudizio è anche tema di un grande studioso di diritto, fra i più eminenti del ventesimo secolo, Francesco Carnelutti. Concludendo il lungo itinerario accademico, che lo vide sulla cattedra di tutte, o quasi tutte, le discipline giuridiche, Carnelutti tenne da ultimo l’insegnamento romano del diritto processuale penale.

Il fascinoso corso di lezioni ha per motivo dominante l’identità tra processo e pena, o, se si preferisce in più semplici parole, il carattere punitivo dello stesso processo. Sapersi giudicati è, già in sé, una pena, una sofferenza che dura nel tempo, e rimane incancellabile nella vita.

Anche la sentenza di assoluzione «scioglie» dal reato e dalla sanzione prevista nella legge, ma non cancella, né potrebbe, la sofferenza del giudizio e l’ansia dell’attesa. La pena del processo è stata già «scontata». Sempre ammoniva Carnelutti che nel processo penale la «res iudicanda è un uomo», che tutti gli atti – del suo iniziare e svolgersi e concludersi – riguardano un uomo, il quale patisce, dal principio alla fine, la sofferenza del giudizio.

Si suole replicare, da cupi e zelanti accusatori, che hanno in sé, e quindi vedono intorno a sé, un’umanità peccatrice e colpevole; si suole obiettare che tale sofferenza è un costo necessario, e che qualsiasi comunità ha bisogno di conoscere e colpire i fatti criminali: un costo pagato da innocenti e colpevoli, ossia da tutti coloro che un giorno conosceremo autori o non autori di reati. Ma proprio la sofferenza del processo, di questa pena legata a un’incognita, che incombe a tutela di un certo ordine giuridico, vuole di per sé la brevità della durata.

Soltanto così la «presunzione di innocenza», enunciata dal secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione, e la «ragionevole durata del processo» (art. 111, 2° comma sempre della Costituzione), acquistano un senso profondo: l’indagine giudiziaria e la «imputazione» segnano già l’inizio di quella «pena», di quel soffrire d’attesa, che si scioglierà soltanto con la sentenza «della fine». Tra l’inizio e la fine si svolge l’angoscia del processo, che è già pena irrogata dal diritto, pena nell’attesa che l’incognita si dischiuda e dia risposta alla domanda. C’è una giustizia del tempo, che domina l'esistenza dei singoli individui e la storia degli Stati: ed essa comprende in sé, accanto alla memoria, anche la dimenticanza. Il passato – come avvertiva Nietzsche – non può soffocarci e distruggere le energie della vita, che si esprimono e costituiscono con lo sguardo al presente e al domani.

E così si spiegano quelle «amnistie», concesse allo spegnersi di guerre crudeli, da avveduti uomini di Stato, che conoscono la necessità dell’oblio. Di quell’oblio che restituisce la pace dell’animo e dei popoli.

Il processo è già di per sé una pena, e tutti, ognuno per le sue competenze, dovrebbero fare il possibile per attenuarne gli effetti, dando mezzi e risorse alla macchina della giustizia, invece che di fare di questa macchina – come plasticamente emerso anche ieri in occasione delle cerimonie distrettuali di inaugurazione dell’anno giudiziario - uno strumento di lotta politica.

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