A tutto c’è un inizio e c’è una fine. Ma ci sono modi e modi e non passa certo inosservato il modo scelto dalla famiglia Mittal per accommiatarsi da Taranto e dal complesso aziendale ex Ilva che gestisce in fitto dal novembre 2018. Ecco perché una rinfrescata alla memoria può essere utile.
L’8 novembre del 2018, a sei anni di distanza dall’ultima conferenza stampa, l’apposita sala dell’acciaieria più grande d’Europa era tornata a riempirsi di giornalisti, a vedere la proiezione di slide colme di progetti e buone intenzioni, ad ospitare discorsi, spesso in inglese, dei nuovi dirigenti della fabbrica. Segno che i tempi delle narrazioni miracolose condensate nei rapporti sicurezza o apparecchiate ai tavoli del centro studi targato Riva appartenevano ormai al passato, oltre che al processo Ambiente svenduto del quale si celebrava una nuova udienza proprio mentre Matthieu Jehl, vicepresidente e amministratore delegato di ArcerlorMittal Italia presentava piano industriale e piano ambientale, impegni e propositi. Convincevano i volti e i sorrisi di chi aveva preso in fitto finalizzato all’acquisto l’acciaieria e sulla riuscita dell’operazione, ricca di incognite e con un sequestro dell’area a caldo ancora in essere sia pure con la facoltà d’uso concessa da uno dei decreti salva-azienda, ci metteva 4 miliardi di euro e la faccia. Aveva, d’altronde, spinto molto sull’aspetto reputazionale Jehl, conscio che dal punto di vista dell’immagine c’era molto da lavorare - e la sostituzione dell’insegna Ilva sulla palazzina che ospita gli uffici della direzione si collocava in questo contesto emozionale - per fare della fabbrica le cui emissioni sarebbero state fonte di malattie e morti per operai e cittadini di Taranto, una azienda sicura, moderna, efficiente e profittevole. Jehl non mostrò titubanze: sicurezza, salute e ambiente devono andare di pari passo con l’aumento della produzione, e con lui nemmeno Marc Vereecke (coordinatore dei piani di investimento), Cristina Moro Marcos (manager environmental, regulations e technology) e Patrizia Carrarini (direttore comunicazione e responsabilità aziendale).
Punti chiave del piano ambientale erano la riduzione delle emissione diffuse, come la copertura dei parchi e i filtri di impianto di agglomerazione, con un investimento di 428 milioni; la riduzione delle emissioni canalizzate, ad esempio il revamping delle cokerie, con un investimento di 290 milioni, le bonifiche (272 milioni), il trattamento delle acque piovane e di processo (167 milioni) e l'upgrade del piano di prevenzione incendi (40 milioni). I principali interventi del piano industriale prevedevano il rifacimento dell’Altoforno 5 e il nuovo contenitore Bof dell’Acciaieria 1 per un investimento di 260 milioni di euro, l'ammodernamento meccanico e l’automatizzazione degli impianti di finitura (250 milioni), i cilindri (120 milioni), le manutenzioni di Hsm, Laminatoio, Ricottura e Crm (100 milioni), allargamento e aggiornamento di Cc4 (60 milioni), la Centrale elettrica Taranto (60 milioni), installazione e sostituzione caldaie per Afo1, Afo2 e Afo4 (55 milioni), Ripristino dei refrattari della suola dell’Afo1 (45 milioni). Il rifacimento dell’altoforno 5 sarebbe avvenuto – e in realtà non è mai avvenuto - utilizzando la tecnologia tradizionale a carbone, fatto che sbarrava la strada - al pari dell’annunciato revamping delle cokerie - a qualsiasi ipotesi concreta di decarbonizzazione (malgrado la campagna sul punto del governatore Emiliano), fermo restando l’obiettivo di abbattere le emissioni di Co2. Quando Afo5 sarebbe stato pronto, si sarebbe proceduto alla contestuale chiusura dell’altoforno 2, e sarebbe stato possibile tagliare il traguardo delle 8 milioni di tonnellate di acciaio annualmente prodotte (Afo 5 è sempre spento, Afo 2 è fermo ai box).
L’integrazione con la città cresceva giorno dopo giorno, Jehl e i suoi presenziavano agli eventi più importanti, una nuova strada nel sempre complicato rapporto tra la fabbrica e Taranto pareva aperta.
Buoni propositi azzerati nel giugno 2019, quando la crisi prese a morsi l’acciaio e ArcerlorMittal Italia chiese la cassa integrazione a rotazione per i suoi 8.200 dipendenti, prevedendone un utilizzo al giorno per 1.400 unità per la durata minima di 13 settimane. Una richiesta giustificata dalla congiuntura (e dal fatto che non c’era più lo Stato a far fronte ai circa 20 milioni al mese persi dalla gestione commissariale) e dal rallentamento della produzione a Taranto da 6 a 5 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. «È una decisione difficile - spiegò l'amministratore delegato di ArcelorMittal Italia, Matthieu Jehl - ma le condizioni del mercato sono davvero critiche in tutta Europa. Ci tengo a ribadire che sono misure temporanee, l'acciaio è un mercato ciclico». ArcelorMittal Italia confermò l'impegno «su tutti gli interventi previsti per rispettare il piano industriale e ambientale, al termine dei quali, con un investimento da più di 2,4 miliardi di euro, Taranto diventerà il polo siderurgico integrato più avanzato e sostenibile d'Europa».
Fu, invece, l’inizio della fine. L’11 luglio un gruista morì al porto, fatto che rilanciò l’allarme sicurezza, assieme all’ordine di spegnimento di Afo2 per un precedente incidente mortale. In piena estate Jehl scrisse a tutti i dipendenti, non negando la bufera - fatta di incidenti mortali, interventi della magistratura, conflitti con la politica, mercato in crisi - ma anzi, partendo proprio dall’ultimo periodo, definito «pieno di momenti che hanno avuto forti ripercussioni su ArcelorMittal Italia», rilanciò la sfida, assicurando la permanenza in Italia malgrado la fine dello scudo penale agli inizi del successivo settembre. Fine certificata il 15 ottobre con la nomina di Lucia Morselli al posto di Matthieu Jehl e poi l’azzeramento di tutto lo staff.
Da allora, il rapporto di ArcelorMittal con Taranto si è deteriorato a causa della cura-Morselli, ovviamente autorizzata dalla famiglia Mittal, fatta di guerre legali con le istituzioni, scissioni negli enti datoriali, cambi vorticosi di management, scontri con i sindacati, dosi abnormi di cassa integrazione, produzione al lumicino, comunicazione da tempi di guerra. Mentre Jehl nello stesso tempo, ha ammodernato gli impianti siderurgici della multinazionale in Francia, rendendoli iper efficienti e ambientalmente sostenibili.
Perché c’è stato tolto Jehl e c’è stata imposta Morselli? Prima di chiudere la sua avventura a Taranto, speriamo nella maniera meno traumatica per tutti, la famiglia Mittal dovrebbe fare uno sforzo nel segno della trasparenza e della chiarezza, per tutto quello che poteva essere e invece non è stato.