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Magistratura e politica: il patto necessario in uno stato democratico

 
Mimmo Mazza

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Mimmo Mazza

Magistratura e politica: il patto necessario in uno stato democratico

Il 29 luglio 1900 nel parco della Villa Reale di Monza l’anarchico Gaetano Bresci attentò alla vita del Re d’Italia Umberto I, uccidendolo con tre colpi di pistola

Domenica 28 Gennaio 2024, 12:00

Il 29 luglio 1900 nel parco della Villa Reale di Monza l’anarchico Gaetano Bresci attentò alla vita del Re d’Italia Umberto I, uccidendolo con tre colpi di pistola. Fu immediatamente arrestato e processato per il reato più grave che l’ordinamento giuridico potesse prevedere: l’uccisione del monarca regnante. Non fu tuttavia condannato a morte, per la semplice ragione che il codice penale all’epoca vigente, il cosiddetto Codice Zanardelli entrato in vigore il 1° gennaio 1890, aveva abolito la pena capitale. Bresci, che senza alcun dubbio era colpevole del reato ascrittogli, fu quindi condannato all’ergastolo.

Nel 1933 fu invece processato a Berlino il giovane olandese attivista politico Marinus Van der Lubbe, accusato di avere appiccato l’incendio che il 27 febbraio 1933 devastò il Palazzo del Reichstag, sede del parlamento tedesco. Particolare non irrilevante è che il comunista Van der Lubbe era probabilmente innocente: fiumi d’inchiostro sono stati versati sulla vicenda e l’ipotesi storicamente più accreditata è che l’incendio fosse stato appiccato dai nazisti e che rientrasse in una sorta di strategia della tensione da cui avrebbe tratto – e da cui effettivamente trasse – vantaggio la loro nascente dittatura. Ma non è questo il punto che qui interessa. Nel febbraio 1933 – epoca dell’incendio – anche il codice penale tedesco non prevedeva la pena di di morte. Tuttavia Marinus Van der Lubbe fu processato a Lipsia alcuni mesi dopo, condannato a morte e decapitato il 10 gennaio 1934. Tale esito processuale fu possibile in forza di una legge, entrata in vigore dopo l’incendio del Reichstag, che aveva reintrodotto la pena capitale.

Il principio dell’irretroattività della legge penale è un caposaldo degli stati di diritto. In base a quel principio nessuno può essere condannato in forza di una norma entrata in vigore dopo la consumazione del reato e – corollario importante – il soggetto colpevole non può essere condannato a una pena più grave eventualmente prevista da una norma entrata in vigore successivamente. Come s’è visto tale principio fu rispettato nell’Italia del 1900, mentre non lo fu nella Germania del 1933. La motivazione è di una straordinaria semplicità: il Regno d’Italia del 1900, pur con tanti limiti e imperfezioni, era una democrazia, mentre la Germania del 1933 era già di fatto diventata una dittatura.

Nel nostro ordinamento il principio dell’irretroattività della legge penale è sancito non solo dall’art. 2 del codice penale, ma anche – e soprattutto – dalla Costituzione il cui 2° comma dell’art 25 così recita: Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

Tale principio si pone come garanzia di certezza del diritto e altresì di libertà della persona, la quale nell’accingersi a compiere – o ad omettere – qualsiasi comportamento è in grado di conoscere se esso sia lecito o meno e, conseguentemente, se lo esporrà o meno a sanzioni.

Viceversa, laddove il principio dell’irretroattività non sia vigente, o venga disapplicato benché vigente, chiunque potrà sempre rimanere vittima di sanzioni decise a posteriori e, quindi, anche di possibili ingiustificate vendette o ritorsioni da parte dell’autorità politica.

Il passaggio dalla dittatura alla democrazia non sarebbe stato completo se non si fosse resa indipendente la magistratura da ogni potere ma - ed è giusto ricordarlo nelle giornate dedicate all’inaugurazione dell’anno giudiziario - lo scontro tra politica e magistratura degli ultimi 30 anni, e la difesa della giurisdizione hanno finito troppe volte per generare, in una parte della stessa magistratura e dell’opinione pubblica, l’idea del potere giudiziario come potere buono e salvifico; quando al contrario è sempre un fattore di salute istituzionale la consapevolezza, soprattutto tra i magistrati, che il potere giudiziario è un potere «terribile», secondo le parole di Montesquieu, o peggio «odioso» come scrisse Condorcet.

La difesa incondizionata della giurisdizione e l’abbandono della critica dei provvedimenti illegittimi - che spesso contrassegnano le nostre cronache - ha finito così per far trascurare prassi giudiziarie illiberali e anti-garantiste, talora ottusamente repressive e in contrasto con quella stessa legalità che tali prassi pretendono di difendere. Ha, inoltre, avallato indebite invadenze della giurisdizione nella sfera della fisiologica discrezionalità della politica e dell’amministrazione. La separazione dei poteri va difesa in entrambe le direzioni: non solo l’indipendenza della giurisdizione dalle invadenze della politica, ma anche l’indipendenza della politica e delle sue legittime sfere di discrezionalità dalle invadenze della giurisdizione, pena l’immagine corporativa che la magistratura, da anni, offre di sé. C’è poi un aspetto ancor più grave che di solito ha accompagnato le cadute di garanzie: il protagonismo di molti magistrati, soprattutto pubblici ministeri e il conseguente populismo giudiziario, cioè la ricerca della notorietà per effetto dell’azione o del giudizio penale, che per di più ha alimentato l’anti-politica che da anni sta avvelenando la nostra democrazia. Con un’aggravante rispetto al populismo politico. Quanto meno il populismo politico punta al rafforzamento, sia pure demagogico, del consenso, cioè della fonte di legittimazione che è propria dei poteri politici. Ben più grave è il populismo giudiziario, che contraddice radicalmente le fonti di legittimazione della giurisdizione.

Abbiamo assistito alla lesione di due principi basilari della credibilità della giurisdizione e della sua legittimazione democratica: la sfiducia da un lato nell’indipendenza dei magistrati da logiche di potere e, dall’altro, nella loro imparzialità. Sono due principi che vanno oggi fermamente ristabiliti, con l’impegno di tutti, superando vecchie e nuove divisioni.

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