Agli esordi di Instagram e di Facebook, i loro fondatori annunciarono «la morte della parola scritta», affermando che questa era stata solo una parentesi della storia dell’umanità, poiché – a loro dire – le persone sono sempre state visuali, con dei cervelli «pensati per le immagini». Avevano ragione? Evidentemente no. E lo si può ribadire, con ancora maggiore fermezza, guardandosi intorno nella più grande manifestazione libraria italiana, che, attraverso gli incontri legati all’oralità, promuove la parola scritta. Ci si sta, ovviamente, riferendo al Salone del libro di Torino, che, quest’anno, apre all’insegna di un titolo prezioso, legato in parte a un romanzo di Lalla Romano e in parte ai versi di Montale: «Le parole fra noi leggere».
Mentre si avvicendano scrittori, si visitano i numerosi e ben forniti stand di case editrici, in una folla appassionata e in un brusio continuo di commenti, alcune riflessioni vengono alla mente: la parola scritta sarà pure in difficoltà, ma certamente non è morta. Tuttavia, però, è necessario dire che il tema è più complesso e riguarda la nostra contemporaneità, mettendo in risalto un enorme paradosso: sono tempi – questi – pieni di parole scritte che non diventano scrittura. Sono tempi – questi – dove si ripropone l’antico tema dell’oralità e della scrittura, che non abbiamo mai veramente esaurito né con Platone, né, più recentemente, con i celebri testi di Walter J. Ong.
Siamo sicuri che quest’umanità sotto i nostri occhi (e di cui facciamo parte) - passata dall’oralità fino alla completa interiorizzazione della scrittura - sia ancora consapevole di che cosa voglia dire essere una cultura alfabetizzata? Innanzitutto è doveroso ribadire, sulla via di Ong, quanto l’introduzione della parola scritta sia stata la prima vera grande forma di tecnologia (altro che Facebook!), trasformando la coscienza degli uomini, creando nuovi modelli di pensiero e dando nuove enormi possibilità alla cultura. Oggi, però, non solo dal tempo più remoto della diffusione dei computer, ma, ancor più, con la diffusione della parola scritta sui social, stiamo tornando a una forma di oralità secondaria, non veramente contrapposta alla parola scritta, bensì racchiusa in un perimetro di sommarietà composto da quelle parole messe in fila sulla scia dell’emotività, che - pur se messe per iscritto - rappresentano una forma alternativa oralità fast, priva di autentica riflessione, dove ogni mediazione della coscienza è quasi azzerata. Non vogliamo certamente generalizzare, ma anche nel migliore dei casi, un post sui social non sarà mai meditato quanto una parola scritta su dei fogli cancellati, ritoccati, corretti e, in alcuni casi, cestinati per sempre.
Siamo davanti a un mare bellissimo di libri, più o meno interessanti, che – anche se nati dalla scrittura computerizzata - portano dentro tutte le caratteristiche della parola scritta su carta. Chi di noi non ha mai ritoccato bozze, stampate dal computer, con una matita o una penna? La più grande tecnologia dei nostri tempi, la parola scritta (leggera, triste, massiccia, ma mai sommaria) a Torino, diventa nuovamente protagonista, ogni anno, contro ogni previsione di mercato elaborata dalla Silicon Valley.
La parola scritta è viva e vegeta e, in particolare quest’anno, dal Salone del Libro, celebra la grandezza di un’opera che mai potrebbe nascere attraverso un chatbot. Quest’anno, infatti, ricorrono i 50 anni di un libro speciale, unico nel suo genere. Irripetibile, appunto: Il sistema periodico di Primo Levi, grandissimo scrittore e, un tempo, chimico di professione, in una fabbrica di vernici. In questo libro, Levi realizza un miracolo, con la parola scritta, poiché ci racconta gli elementi chimici, propri del suo mestiere, mettendoli in fila con la scrittura, con la memoria, con l’osservazione. È altissima la sua lezione sul mestiere di scrivere, decisamente più efficace del testo di Carver legato al tema. Primo Levi, con queste pagine immortali, ha voluto insegnare alla posterità come la parola scritta non deve mai perdere di serietà, di selezionata complessità, anche quando si tratta di narrativa. Lo scrittore può dunque imparare, in parte, dal chimico, a “combattere” contro «la morale del pressappoco, dell’oppure, dei surrogati, di tutti i rappezzi». Al tempo dei social, che qui non si vogliono condannare, è utile riflettere sulla lezione di Levi ed è utile guardare l’entusiasmo di tanti giovani arrivati al Salone di Torino.