Sabato 06 Settembre 2025 | 19:10

Quando Benedetto Croce mise all’indice il buonumore

 
Pasquale Bellini

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Pasquale Bellini

Quando Benedetto Croce mise all’indice il buonumore

Se la categoria del comico, con la risata come ovvia conseguenza, non è entrata nel canone ufficiale della cultura italiana (parliamo del Novecento) la “colpa” è del filosofo di Pescasseroli...

Lunedì 21 Aprile 2025, 07:10

Tutta colpa di Benedetto Croce. Se la categoria del comico, con la risata come ovvia conseguenza, non è entrata nel canone ufficiale della cultura italiana (parliamo del Novecento, anche se pure l’idealismo ottocentesco non scherza, vedi De Sanctis) la “colpa” è del filosofo di Pescasseroli che nella sua Estetica del 1902 stabilendo il primato della poesia lirica su tutte le altre manifestazioni dello spirito umano, relegava tutto ciò che è realistico, dalla narrativa fino al teatro, all’interno di una scala di valori inferiore e del tutto squalificata. Vietato ridere. E pensare che quasi in contemporanea, nel 1900, un altro filosofo, Henri Louis Bergson proprio nel saggio Il riso, codifica come il riso sia una sorta di espediente del cervello umano, atto a ristabilire l’equilibrio psico-fisico quando si verifica un’interruzione (trauma, dice Bergson) rispetto alla prevedibile normalità spazio-temporale degli eventi: si ride cioè come reazione compensatrice rispetto a ciò che ci risulta improvviso, sorprendente, inatteso. Via di fuga, ancora di salvezza, il ridere sembrerebbe indispensabile al buon vivere umano.

Intanto a Vienna, in quegli stessi anni, il dottor Freud trafficava, a partire dalla sua Interpretazione dei sogni del 1899 con i concetti di lapsus, di motti di spirito, con le scivolate di senso della gente in generale. Ma vietato ridere, almeno per Croce e per gli idealismi del primo ‘900. Neanche Gramsci ne fu esente. Vietato considerare ciò che attiene alla comicità o al riso come degno di “alta” espressività linguistica, visto che caratteristica della comicità (e del riso) è appunto il suo attenere alla dimensione fisica o addirittura fisiologica della condizione umana: produce comicità e riso lo scarto dalla norma, il lapsus comportamentale, l’eccesso e l’eccezione rispetto alla regola psico-fisica riscontrabile nella realtà. Fa ridere il troppo magro, o il troppo grasso, il troppo vigliacco, l’affamato, il balbuziente, l’avarissimo all’interno di un confronto con il reale basato su un concetto convenzionale e dato per acquisito di verità fisica o psicologica. Ma tutto ciò è “bassa forza” dal punto di vista culturale, secondo l’ idealismo crociano, beninteso!

Non si ride, figuriamoci, con D’ Annunzio, ché il suo Superuomo pensa solo a sedurre, a volare altissimo, a profondere e sperperare versi con voluttà: è il Vatissimo che fa benissimo. Non si ride con i Futuristi: troppo protagonismo, troppa velocità, troppo prendersi sul serio, troppa guerra “igiene del mondo” soprattutto! Non si riderà affatto, manco a dirlo, col Fascismo e dintorni. Il povero Pirandello, che pure ha scritto un saggio su L’ umorismo nel 1908, in contrasto con Croce (che aveva stroncato l’opera del siciliano) il quale Pirandello vi ha impostato tutta la sua teoria sul senso del contrario, partendo proprio dall’élan vital bergsoniano, non esce però anche lui da una considerazione tra l’austero e il nevrotico della condizione umana. L’umorismo pirandelliano non è altro (qui l’arrischio!) che la falsa coscienza della borghesia italiana, la quale (vedi di fronte al fascismo) tende a parlar d’altro rispetto alla realtà, ma sempre anelando all’empireo della lirica, della tragedia auspicabile, del ben composto melodramma. Se quindi è vietato ridere, almeno ai piani alti della cultura italiana, tocca rifugiarsi nei sottoscala delle culture regionali, vernacolari o presunte tali. Qui troviamo infatti i grandi scrittori comici italiani del ‘900, a teatro: sono Ettore Petrolini, Raffaele Viviani, infine i De Filippo, a cominciare da Eduardo, e via via proseguendo fino a Dario Fo. 

A voler poi riprendere quel saggio di Bergson, Il riso per l’appunto, l’autore attribuiva una dimensione tutta sociale alla comicità e al ridere: si ride fra uomini e donne all’interno di una società e di un gruppo che condivida lo stesso codice morale, civile, comportamentale. Non si ride da soli, di qui l’importanza sempre del teatro. Il riso, si sa, fa buon sangue. Anzi meglio: forse lo evita, il sangue.

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