C’era una volta un pezzo di legno. E ne venne fuori il burattino, Pinocchio. C’era una volta un attore, materiale più malleabile del legno, vedi un Carmelo Bene. E ne venne fuori in teatro un altro Pinocchio, spettacolo memorabile fra i memorabili dell’attore salentino. Bene ne curò diverse versioni: la prima nel 1961, nel famigerato Teatro Laboratorio di Trastevere a Roma (spazio aperto al visibilio di intellettuali e gentili signore, deliziati da trasgressioni efferate, tipo scrosci di pipì sulle prime file): Pinocchio fu spettacolo che, pur senza pipì, Giuliana Rossi, attrice e prima moglie di Bene, definì «il più bel lavoro mai fatto da Carmelo». La seconda versione del ‘64 vede già accanto a Bene-Pinocchio la Lidya Mancinelli quale Fata Turchina onnipresente (anche in altri ruoli del testo) accanto all’imperituro Carmelo nella messinscena del 1981. Di questa posso parlare in presa diretta, avendo visto lo spettacolo quando passò a Bari, al Teatro Petruzzelli, nel dicembre 1981, quaranta e tre anni or sono (ahimè!). Bene aveva già da tempo intrapreso la strada della cosiddetta phoné, con un ampio spazio dato agli effetti sonori, con microfonature, amplificazioni, registrazioni, playback, ecc. In questo Pinocchio al Petruzzelli, il testo di Collodi veniva detto/amplificato dai vari personaggi: Bene era ovviamente Pinocchio con naso a punta, ma anche Lucignolo, mentre poi la Mancinelli era Fata Turchina, ma anche il Gatto e la Volpe, Geppetto e altri personaggi ancora, con l’aiuto in scena dei Fratelli Mascherra e l’utilizzo di maschere (di Gianni Gianese). I personaggi, piuttosto statici, uscivano dal buio di fondo, con le musiche di Gaetano Giani Luporini ad avvolgere il tutto. Nello spettacolo a Bari, per motivi tecnici, non si poté esibire Carmelo (come realizzato a Roma al Teatro Quirino) lanciandosi su un’altalena dal palco verso la platea, avvolto da fasci di luci tricolore. Era certo, la scelta di recitare Pinocchio lo rivela del tutto chiaramente, un’affermazione di quella “eterna fanciullezza” del Carmelo Bene uomo e attore, laddove il “rifiuto di crescere” del Burattino-Pinocchio adombra ben altre inibizioni, ambizioni, frustrazioni, iperboli e metafore squisite del Carmelo eterno fanciullo. Bene a proposito del suo Pinocchio affermò: «L’essermi, come Pinocchio, rifiutato alla crescita è se si vuole la chiave del mio smarrimento, gettata in mare una volta per tutte. L’essermi alla fine liberato anche di me... Non c’ è nel Pinocchio lo spettegolìo del teatro di prosa... È un’inumazione prematura di una salma infantile, che scalcia nella propria bara».
Salma o non salma lo spettacolo aveva momenti di imperdibile divertimento, mescolati a lunghe tirate, tra microfoni e amplificazioni, di una “macchina attorale” già ormai tutta virata verso la dilatazione dell’apparato sonoro/musicale, a discapito della “normale” narrazione drammaturgica. Da ricordare che Carmelo Bene, sullo scorcio di quell’anno 1981, era reduce dal trionfo della Lectura Dantis a Bologna in agosto, dalla Torre degli Asinelli, nell’anniversario della strage alla Stazione dell’anno precedente. Lectura Dantis realizzata con mezzi tecnici e acustici eccezionali. Da allora in poi, per Bene, fu tutta una phoné, con le glorie ma con i limiti della soluzione.