Sarà perché rappresenta in qualche modo il punto di contatto con quella magia archetipale dello schermo che è la mélièsiana trasformazione a vista, ma l’attrazione del cinema per Pinocchio sembra scritta nel fato. Deve averlo intuito già nel 1911 Giulio Antamoro, pioniere del cinema muto italiano, che diede vita per la Cines al primo Pinocchio, facendolo esordire proprio in una teatrale capriola con trasformazione a vista di Ferdinand Guillaume, noto alle nostre platee come Tontolini: esordio da vaudeville per la creatura collodiana, che sarà in qualche modo ripreso dal grande Totò nella sua stagione teatrale e poi fissato in pellicola nella performance pinocchiesca dell’ineffabile Maestro Scannagatti di Totò a colori. Tutto un rotear di articolazioni e giunture mirato a celebrare la fisica del burattino attaccato a fili invisibili e si staglia come la figurazione corporea di quella performance tutta vocale e microgestuale che anni dopo segnerà invece l’approccio di Carmelo Bene.
Il burattino/bambino che si relaziona al padre tra obbedienza e disobbedienza, libero arbitrio e senso del peccato, porta in sé il marchio di un dramma tutto umano che nelle trasposizioni cinematografiche emerge ora più ora meno, a seconda che autori e produzioni guardino al testo di Collodi come un libro o una fiaba. In principio resta sempre la struttura archetipale offerta da Walt Disney, che nel 1940 vede Pinocchio come una sorta di Peter Pan meno volitivo e più in balia di un destino normativo: emerge la traccia di un ribellismo istintivo che oscilla tra la forma del capriccio, l’ombra dell’inganno e la scintilla dell’intelligenza e il Grillo Parlante resta il classico “aiutante”, dotato però di una grazia alla Fred Astaire che ben dialoga con le movenze da Ginger Rogers della Fata Turchina.
Traccia ben diversa dal quieto e incisivo realismo fiabesco che adotterà Luigi Comencini a metà dei ‘70, nella memorabile versione televisiva. Il piccolo Andrea Balestra è un Pinocchio che si muove in un mondo un po’ scenografico e un po’ realistico, consegnato da Comencini all’amore nazionalpopolare degli Italiani come fosse la versione sottoproletaria del piccolo Incompreso, figlio dell’alta borghesia che aveva commosso il pubblico a metà degli anni ‘60. A fronte del canone stabilito da Comencini si staglia in Italia una serie di trasposizioni segnate da differente carattere degli autori: Francesco Nuti si schianta produttivamente contro la distonica versione ambiziosamente offerta in OcchioPinocchio (1994, forse da rivalutare col senno di poi...), Roberto Benigni (2002) ambisce a dare corpo all’irrealizzato sogno pinocchiesco di Fellini e articola un florilegio in cerca di lirismo, Enzo D’Alò (2012) lavora di fino sulle linee essenziali della sua animazione, Matteo Garrone (2019) cerca per il testo collodiano un incarnato più intenso, drammatico e persino gotico... A Hollywood, invece, Robert Zemeckis (2022) inciampa in una versione poco ispirata, proprio nell’anno in cui Guillermo del Toro si affida all’animazione in stop motion per quello che resta come un autentico capolavoro, magnifico per intensità, vitalità, emozione, sensibilità e sguardo.