La categoria del “no” assoluto, nelle condizioni possibili, delinea in modo netto la posizione assunta da Goffredo Fofi nell’arco di una lunghissima carriera di polemista sociale e culturale. In lui, come sa chi lo ha conosciuto bene, il verbo litigare ha preso affettuosamente e vigorosamente il posto di discutere nella fisiologica battaglia per una cultura e quindi un cinema non compromessi da quella medietà che resta di certo il sintomo più preoccupante tra modelli alti e bassi. Perciò il suo Il cinema dei no (Elèuthera 2024, I ed. 2015, pp. 128, euro 14), nella nuova edizione del 2024, integrata con aggiunte importanti, è un “calepino”; nel senso in cui lo intendeva Leonardo Sciascia in Una storia semplice. Insomma Fofi privilegia un discorso di sintesi paradossale, dove le dimensioni del volume risultano inversamente proporzionali al peso definitivo delle questioni
messe in campo, in questo cado dal e sul cinema minoritario nel suo ostinato e autorevole diniego.
In Fofi, che da tempo riconosce a Sciascia il posto dei maestri e lo chiama in causa per primo sul fronte storico-letterario e intellettuale nazionale, la dimensione autobiografica è inseparabile dalla riflessione ad ampio spettro. E questa progressiva rarefazione di un discorso che prende le mosse da lontano corrisponde a un bisogno oltremodo maturo, di non perdere e far perdere la barra diritta su due concetti fondamentali che ne Il cinema dei no implicano l’ambito cinematografico ma sono imprescindibili a monte: la prassi non corriva e corrente del modello anarchico di pensiero costruttivo e di rifiuto organico dell’esistente, e quella che Colin Ward definisce la “disperazione creativa”.
In questo libro, contemperando il sé con gli altri, l’autore aggancia la sua formazione etica, sociale e culturale al contesto che per forza di cose a un certo punto converge sul fattore largamente e non strettamente cinematografico. Se si cerca ne Il cinema dei no una tabella di modelli d’autore, è chiaro che c’è, ma dopo che Fofi ha chiarito come arrivarci, per cerchi concentrici di passaggi importanti e trasversali. Non è un caso che una delle sue pregresse e più belle raccolte di interventi recasse come titolo paradigmatico Prima il pane, in segno di una necessità profonda di ricominciare da ciò che conta davvero, “contro il facile companatico”.
L’elenco di ritratti, con un taglio geografico di richiami, dunque arriva, a pagina 45, con il capitolo “Autori e opere”, laddove Fofi stesso riconosce in più punti, essere approssimativo per difetto, ma non per dimenticanza quanto per priorità assegnata alla rappresentatività. Ma nella carrellata dei determinanti esempi, inaugurata da Chaplin, conta prima di tutto il criterio, non solo la galleria preziosa di riferimento. Il lettore, possibilmente giovane, dovrà cavarne non tanto un indottrinamento quanto un esempio per essere poi autonomamente in grado di trasferire le modalità di questo saper dire di no al momento giusto e con il cinema giusto. Ed è in questa prospettiva aperta che il libro non si chiude su chi ha già dato, ma prosegue, con un paragrafo
intitolato “Continua…”, i cui puntini di sospensione assumono un valore pari a quello di Una storia semplice con la frase lasciata interrotta dalla vittima: “Ho trovato”, seguito da un punto incomprensibile. L’assenza lì, coercitiva e perciò mafiosa, del complemento oggetto rivelava un prosieguo inevitabile di contenuti indicibili. In Fofi, questo principio/fine del testo e quindi del
viaggio nel cuore dei no della sua vita di spettatore e critico assume valenza di un sì ragionato e ammonitore, disperato nella sua creatività.