di Giacomo Annibaldis
Infine il bubbone è scoppiato e ne sono fuoriusciti pus e miasmi maleodoranti. E continuano a uscirne. È bastata una prima denuncia da parte di una delle vittime di violenza perpetrata dall’«orco» Weinstein, ed ecco un profluvio di accuse, e non solo contro il magnate cinematografico americano, ma anche contro attori e registi, pure italiani (Tornatore, Brizzi…). La violenza contro le donne è un abuso subdolo e non conosce confini di luoghi e di tempo. Perciò, quel che stupisce è che i casi denunciati appaiano forzosamente delimitati al mondo dello spettacolo. Sicché il timore è che tutto si risolva, infine, in una bolla… spettacolare.
Insomma non avverrà quella rivoluzione che pure tali gesti comportarono in antico. Quando lo stupro di donne e la molestia sessuale poté indurre delle vere svolte storiche. A Roma, ad esempio. Se è vero, infatti, che c’è un caso di violenza di massa perpetrato contro le donne a dar vita alla città di Romolo, è anche vero che fu lo stupro ai danni di una matrona a innescare un radicale cambiamento politico: si passò dall’originaria monarchia dei «sette re» alla repubblica dei consoli e del senato (che durerà sei secoli).
Furono oltre 500 (le fonti sono stranamente precise: 527, riporta lo storico Plutarco) le fanciulle rapite dagli uomini di Romolo e Remo. Il «ratto delle sabine» fu difatti un capitolo basilare della potenza di Roma. Diremmo: istitutivo. E tuttavia non mancarono discussioni, anche in antico, sul riprovevole gesto e la sua validità decretata dal fato. Si sa che Romolo stesso dovette cercare delle giustificazioni; sempre secondo Plutarco, «il più grande argomento a sua difesa era che non rapirono nessuna donna sposata, ad eccezione di una, Ersilia; ma inconsapevolmente. E ciò dimostrerebbe che il rapimento non intendeva essere un atto di oltraggio o di sopraffazione, ma un modo di unire i due popoli con stretti vincoli di parentela». Non sappiamo, invece, quali giustificazioni abbiano accampato i terroristi di Boko Haram, quando rapirono le trecento fanciulle in Nigeria!
A Roma le sabine – narra la storia – mediarono tra i loro uomini e assicurarono ai parenti che non erano state maltrattate. Accettarono la situazione, ormai. Chi invece non l’accettò affatto, fu Lucrezia. La matrona romana, sposa di Tarquinio Collatino, lamentò di essere stata violentata da Tarquinio il Superbo, re di Roma, e perciò pubblicamente si trafisse il petto, non potendo sopportare il peso dell’insulto e della vergogna. Il suo si configurò come un elemento fondativo di un nuovo corso politico, dal momento che, facendo seguito al suicidio, i romani detronizzarono il re, e istituirono la repubblica.
Potrebbe sembrare una coincidenza, ma anche ad Atene avvenne una simile cosa, allorché fu abbattuta la tirannide della famiglia dei Pisistratidi e si istituì la repubblica. Scintilla fu – come si sa – l’uccisione di uno dei figli del tiranno da parte di una coppia di amanti, il giovane Armodio con il suo erastés Aristogitone: da allora i due furono denominati «i tirannicidi» e statue furono elevate in loro onore come a campioni della libertà. Ma il grande Tucidide insinua chiari sospetti sul loro gesto carico all’apparenza di idealità politica. E ci svela che alla base del rivolgimento ci furono essenzialmente molestie sessuali. «Armodio – ci dice lo storico ateniese – era uno splendido giovane nel fiore dell’età e Aristogitone, un cittadino di media condizione, se ne era innamorato e viveva con lui. Armodio era, però, divenuto oggetto di particolari avances da parte di Ipparco, il figlio del tiranno Pisistrato; e tuttavia non si lasciò sedurre, anzi rivelò le molestie al suo amante». Che, ferito nel suo sentimento d’amore e temendo di perderlo a causa della potenza del molestatore, incominciò a complottare per abbattere la tirannide. E così fu (per quanto Tucidide ci tenga a sottolineare che Ipparco non giunse a compiere alcuna violenza nei riguardi del bell’Armodio…).
Potere e abusi sessuali, come si vede, sono alla base dei due episodi di Lucrezia a Roma e dei tirannicidi ad Atene. Ma non c’è da stupirsi se la storia di quelle civiltà, soprattutto la greca, pullula di stupri e violenze: era, quello, un mondo sostanzialmente «fallocratico». «Lo stupro – ha scritto Eva C. Keuls nel suo libro Il regno della fallocrazia – è l’estrema traduzione in pratica del «fallicismo». Non viene commesso a scopo di piacere o di procreazione, ma per affermare il principio del dominio attraverso il sesso. Non sorprende quindi che i greci di Atene ne fossero ossessionati».
E difatti, una tale ossessione veniva codificata nei suoi aspetti non solo sociali ma anche religiosi: molte divinità dell’Olimpo si propongono come veri e propri stupratori seriali. Zeus, il padre degli déi, e suo figlio Apollo sono spesso impegnati in scorribande sessuali, alla ricerca di donne e fanciulli da violentare; e così Marte ed Eracle, Poseidone ed Ermes: le loro avventure non appaiono sempre galanti, o trastulli amorosi consensuali. Zeus ricorreva a travestimenti ingannevoli per possedere le belle mortali. E a proposito di Apollo, basterebbe ricordare il caso dell’avvenente Dafne, alla quale, per sfuggire alle insane voglie del dio, non restò che trasformarsi in un albero, l’alloro, pur di non cedere alla violenza.
Apollo non venne di certo punito per questo. Ma quando sua madre, la bella Latona, rischiò di subire violenza dal gigante Tizio, allora sì che costui meritò una esemplare condanna: fu gettato agli inferi a subìre una tortura eterna, insieme a Sisifo e Tantalo…
Sì, perché, in un mondo così segnato dagli abusi, poteva capitare che anche le dee divenissero vittime di violenza: accadde alla divinità marina Teti, dal cui stupro da parte dell’umano Peleo nacque Achille (lei aveva tentato di tutto per sfuggire agli abbracci del violentatore, trasformandosi in fuoco, acqua, vento, albero, uccello, tigre, leone, serpente, e perfino seppia; ma invano). Ne seguì un matrimonio riparatore. D’altronde nessuno degli dèi avrebbe gradito congiungersi con lei, dato il funesto vaticinio che incombeva sulla progenie destinata a divenire più rilevante del proprio padre!
Se da una parte questi erano i modelli divini da imitare, dall’altra i greci avevano comunque elaborato una compensatoria teoria sulla essenza barbarica e beduina della violenza sessuale. Infatti, proprio nel mito di Atene si annoverava la condanna di tali gesti, rappresentata nella leggenda della Centauromachia. I centauri, esseri selvatici metà umani e metà equini, erano stati invitati alle nozze di Ippodamia; ma inebriati dal vino e dalla rilassatezza del convito, abbandonarono ogni freno inibitorio e tentarono di usare violenza alla sposa e alle altre donne presenti alla festa. Ne scaturì un sanguinoso conflitto, che assurse a simbolo della lotta tra la forza della ragione, personificata nei Lapiti, e gli istinti irrazionali e ferini, rappresentati dai mostruosi centauri.
Ma tuttavia i greci sapevano distinguere tra apprezzamenti o avances dalla vera violenza (distinzione invocata da qualcuno in questi giorni «weinsteiniani»!). È ciò che si deduce dall’episodio del tiranno ateniese Pisistrato (ancora lui!). Un giorno – riporta Valerio Massimo – sua figlia fu avvicinata in strada da un giovane; perdutamente innamorato di lei, costui la baciò! La madre della ragazza pretendeva dal marito, il tiranno, che il molestatore fosse messo a morte per tale oltraggio. Ma Pisistrato rispose: se dovessimo uccidere coloro che ci amano, che faremo a coloro che ci odiano?