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Il film su Varichina
«Io e la storia
di un sedere ambulante»

 
Il film su Varichina da ieri al cinema «Io e la storia di un sedere ambulante»

Venerdì 03 Febbraio 2017, 10:52

18:24

di ALBERTO SELVAGGI

Scrivo alla rinfusa perché sono impegnato a truccarmi per andare a presenziare alla prima barese della docufiction «Varichina» nella Sala 2 dello Showville (ieri sera per chi legge). Scrivo perché nessuno può prevedere i fenomeni, neppure questo piccolo, legato al gay abominevole che riesumai dall’oblio della coscienza incivile, Lorenzo De Santis, gay-trash urlante, quasi analfabeta, cabarettistico, volgare tanto da diventare godibile come il rigetto d’un banchetto romano in un triclinio.

Però, in parte, avevo previsto questa Lorenzo-mania. Ero certo che la miserabile, anche squallida, grottesca e lagrimevole storia di Varichina, cioè di questo sedere ambulante strizzato in pantaloni a zampa color caramello, di questo panzone guatante sul soffio di deformati serafini, ‘sto omone che pareva ‘na bestia alla quale mancava una rotella per essere definito perbene, sarebbe stata esplosiva. Almeno nell’alveo marcio di Bari, tutto cozze, scogli divorati dai Vandali dei frutti di mare, strade a gruviera, che diede fama tra i Settanta e gli Ottanta (decadenza sanitaria nel decennio seguente) al nostro eroe dei fallimenti: amore, soldi, ruolo sociale. Finché il caso editoriale e da social network s’è abboffato nel pentolone del cinema, s’è fatto stralunamento, innervandosi di invenzione e riflesso, sconfinando in una dimensione imprevista: tracimazione biblica.

Tenevo una rubrica – momentaneamente sospesa per cavilli miei – nomata «Quadretti Selvaggi», a tema prevalentemente barese, sopra questo giornale, pubblicata ogni santa o dannata domenica. E avevo nel papiro degli argomenti appuntato così: «Varichina». Cioè il ricchione anomalo che inscenava il Gay Pride da solo per le strade di Bari, più noto di Michele Emiliano, Tony Santagata, di Giuseppe Tatarella, o di Araldo Di Crollalanza, che non era un fesso. Un soprannome magnifico, ma pure un milite ignoto del riscatto sessuale inconsapevole. Nessuno conosceva il suo cognome: «Uè, Varichin’!»; finito. Soltanto i vicini guardavano dove languiva: un soppalco-nido con scaletta a pioli privo di cesso e poi un sotterraneo buono come deposito per ricettatori e contrabbandieri. Della più famosa macchietta istintiva locale nessuno conosceva genitori, origini, età, vita, fratelli, sorelle. Era morto? Era vivo? Nessun cronista ne aveva mai scritto un rigo. Nessun fotografo aveva immortalato i suoi riccioli color pulcino estirpato dal nido. Ma, nella perenne ricerca del Graal della denaturazione del sesso, tenni a mente l’impresa.

Finché una sera il mio dirimpettaio di scrivania, udendomi farneticare di Varichina, fece: «E lo scoop sarebbe non solo scoprire se è morto o vivo, ma, se è crepato, beccare la tomba e fotografare l’immaginetta». E’ ciò che feci, fra brevi indagini presso checche agonizzanti o vizzite, archivi cimiteriali, incursioni semilegali e così via. Il mio articolone, vomitato con proposta esibizionistica di erigere un busto alla memoria della mega-recchia, mio eroe, paladino dei vinti e di qualsivoglia schifezza, fece il botto, viaggiò tanto anche su internet, come previsto. Ma, come non previsto, stuzzicò le voglie e il fiuto di due registi di stanza a Roma che lo lessero filmicamente: Antonio Palumbo e Mariangela Barbanente. Mi chiamarono proponendomi di realizzare un film liberamente ispirato alla mia inchiesta biografica su Lorenzo. Venne il sì della Apulia Film Commission. E il resto è la storia piuttosto incredibile di questi giorni. Ma se mi chiedete che tipo di storia sia, non ve lo so dire.

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