di MIMMO MAZZA
TARANTO - Chiesto dalla difesa, agevolato dalla Procura, accolto dalla corte d’assise, l’ennesimo rinvio del processo chiamato a fare luce sul presunto disastro ambientale provocato dall’attività dell’acciaieria più grande d’Europa genera un polverone di polemiche che vanno - come spesso capita a chi tenta di coniugare le ragioni del diritto con quelle di pancia - ben oltre la questione in sé. Che l’udienza di ieri di «Ambiente svenduto» potesse risolversi in poca cosa era chiaro a tutti coloro i quali avevano saputo - come scritto dalla Gazzetta - che la storica società cassaforte della famiglia Riva, Riva Fire, aveva mutato nome in Partecipazioni industriali, a seguito dell’ammissione all’amministrazione straordinaria, aveva nuovi dirigenti (i già commissari Ilva Laghi-Gnudi-Carrubba) e dunque aveva, ha, bisogno anche di nuovi avvocati di fiducia giacché Pasquale Annicchiarico e Stefano Loiacono hanno rimesso il mandato, loro originariamente assegnato dalla famiglia Riva.
Dunque, quando il nuovo legale Massimo Lauro si è alzato dinanzi alla corte d’assise per chiedere un termine a difesa anche allo scopo di dar corso a quella richiesta di patteggiamento sulla quale avevano lavorato i suoi predecessori, su input della famiglia Riva, è parso evidente che l’udienza sarebbe durata una manciata di minuti. Il codice assegna un termine non inferiore a sette giorni ma sia l’avvocato Lauro che il procuratore capo Carlo Maria Capristo hanno sottolineato alla corte d’assise la necessità di avere a disposizione più di una settimana perché il via libera alla richiesta di applicazione della pena deve arrivare da due uffici ministeriali e pur essendo già definiti a grandi linee il contenuto della richiesta, si tratta di passaggi burocratici complessi, difficilmente superabili in sette giorni.
La corte d’assise, così, ha accolto la richiesta di rinvio e aggiornato il processo al 17 gennaio, scatenando le proteste di una decina di militanti dei Cobas, e rimandando dunque anche la lettura dell’ordinanza sulle questioni preliminare, a partire dalla richiesta di trasferimento del processo a Potenza per incompetenza funzionali dei giudici tarantini, presentate dal collegio di difesa.
In cancelleria sono state depositate le due istanze di patteggiamento che la Procura ha firmato con Ilva in amministrazione straordinaria e Riva Forni Elettrici, le due società sotto processo - assieme all’ex Riva Fire - ai sensi della legge 231 del 2001 che disciplina la responsabilità amministrativa delle imprese per fatti-reato commessi dai rispettivi proprietari, dirigenti e dipendenti. Quando arriverà anche l’istanza dell’ex Riva Fire, le posizioni delle tre società saranno stralciate e sarà una nuova corte d’assise, per non rendere incompatibile l’attuale, a valutarne la congruità e a decidere dunque sulla ratifica. Patteggiando, le tre società usciranno dal processo senza risarcire le parti civili, limitandosi a rimborsare le spese legali sostenute.
Aspetto che ha suscitato polemiche pur se va detto che in pochi si sono costituiti contro le società (nessun ministero o ente locale come Regione Provincia o Comune, ad esempio, pur se ieri comunque a titolo di cortesia istituzionale il procuratore Capristo ha risposto alla richiesta di chiarimenti del governatore Emiliano sui patteggiamenti, informandolo della situazione) e che i soldi che proprio in virtù delle richieste di applicazione della pena saranno confiscati a Ilva in amministrazione straordinaria (241 milioni di euro) e ex Riva Fire (un miliardo e 300 milioni di euro) saranno sì destinati alla decontaminazione e ambientalizzazione del siderurgico in forza di un emendamento inserito dal governo nella legge di stabilità ma in caso contrario sarebbero finiti al fondo unico di giustizia (che ha come scopo l’abbattimento del debito pubblico) e non certo alla città di Taranto, né ai suoi cittadini. Aver vincolato una cifra importante (un miliardo e mezzo di euro) per la messa a norma dell’acciaieria rappresenta sicuramente un fatto importante, come ribadito in aula dal procuratore Capristo.
Mancano risposte e soldi, e non verranno sicuramente da questo processo, sulla decontaminazione delle aree esterne all’acciaieria. Chi ha inquinato all’esterno del perimetro della fabbrica, non pagherà, perché ormai non ha più nulla da pagare essendo le società semi-fallite, i beni personali ridotti a pochissima cosa e la sanzione penale in sé, quando arriverà, certamente non risarcitoria. Chi ha permesso con dolo e consapevolezza, chiudendo tutti e due gli occhi, l’inquinamento, invece nel processo non c’è mai stato oppure ci è entrato sedendosi paradossalmente dalla parte della ragione.