di GIACOMO ANNIBALDIS
Stringe una fiaccola con il braccio sinistro la dea Demetra, riaffiorata recentemente a Egnazia, il sito archeologico più rilevante di Puglia che si affaccia sul mare presso Fasano (Brindisi). È lei – e non a caso – che con la sua mitica torcia illuminerà più di ogni altro la «Notte europea dei musei», che si svolgerà questa sera, e che vedrà varie iniziative nei musei pugliesi.
La dea, raffigurata in una statua in marmo greco, è riemersa ad ottobre dello scorso anno, durante l’ultima campagna di scavi condotta da Raffaella Cassano insieme al team dei giovani archeologi dell’Università di Bari. E dallo scavo, senza porre altro tempo in mezzo, la divinità balza subito nel museo archeologico diretto da Angela Ciancio, che ha inteso proseguire la buona pratica di esporre quanto prima (e non, invece, far «morire» nei depositi) i reperti più ragguardevoli che via via emergono dal sito archeologico. Perciò si è proceduto a un immediato restauro (effettuato da T. Petrafesa e V. Caiulo), che ha messo in luce i minuziosi particolari della «regina della Notte».
Demetra è una scultura «terzina», vale a dire un’aggraziata statua alta 70-80 cm., databile alla prima età imperiale (I-II secolo d.C.). Rappresenta la divinità della Grande Madre, avvolta in un ampio mantello che la stringe tutta, e dal quale emerge una lunga veste pieghettata. La dea greca è colta in un momento particolare della sua vicenda divina: il suo peregrinare per il mondo dopo il rapimento della figlia Persefone (Proserpina per i Romani) da parte di Ade, dio degli inferi, cui la fanciulla era stata promessa in sposa dal padre Zeus. Per nove giorni e nove notti, racconta il mito, la madre sconsolata erra per ogni dove, per terra cielo e mare, in cerca della sua ragazza; senza mangiare, senza bere, né lavarsi, né agghindarsi, e tenendo in mano una fiaccola accesa.
Purtroppo, la statua di Demetra ci è pervenuta senza la testa e senza l’avambraccio destro, nella cui mano, probabilmente potevano apparire altri attributi della dea: un mannello di spighe ovvero una melagranata, frutto a lei particolarmente caro, ma anche funesto. E, d’altronde, nel settore in cui la statua sarà esposta nel bel museo abbondano pomi di melograno in argilla ritrovati anch’essi a Egnazia, oggetti votivi che confermano la presenza rilevante del culto della Grande Madre, assimilata in seguito alla dea orientale Cibele (cui si collega il bellissimo volto di Attis, il fanciullo da lei amato; mentre il fanciullo amato da Demetra è Trittolemo), nonché alla dea Siria, di cui si è ritrovato il grande altare con raffigurazioni in rilievo di strumenti musicali, gli stessi suonati dai sacerdoti della dea durante le liturgie.
Ma la statua ritrovata – e da oggi esposta – non doveva essere oggetto di culto pubblico, perché, ci spiega Raffaella Cassano, è riemersa nelle rovine di una domus, la residenza aristocratica sita presso le terme: la scultura – dal momento che la parte posteriore non è perfettamente modellata nel panneggio, come quella anteriore – doveva ornare una nicchia della casa, edificata a ridosso del foro e abbellita da un peristilio, il cortiletto con colonnato, dei cui capitellini si sono trovati alcuni esemplari. È qui che si è indirizzata la campagna di scavo dello scorso anno ad Egnazia, individuando una frequentazione della residenza a partire da un iniziale impianto del II secolo avanti Cristo, che procedette con varii rifacimenti fino alla metà del IV secolo dopo Cristo (indizio di tale datazione-limite sono le numerose monete coniate dall’imperatore Costanzo, figlio di Costantino).
Furono forse le riforme costantiniane, ovvero una qualche catastrofe naturale (un’alluvione, forse), a mandare in rovina il quartiere residenziale. Su di esso si installò più tardi una basilica paleocristiana. Ma prima di questa data, ancora nel IV secolo d.C., quel gruppo di domus doveva esibire il suo prestigio, se grazie alla ricerca archeologica ci ha consegnato reperti rilevanti e inusuali. Rilevanti: è il caso, ci svela Cassano, di un cofanetto (andato perduto, perché di legno) che doveva contenere un gruzzolo di monete e una manciata di gemme sfuse, pietre dure non lavorate o semilavorate, ma non ancora incastonate in gioielli.
Inusuali: come l’icosaedro in cristallo di rocca, un piccolo oggetto geometrico-matematico con iscritti, nelle sue venti facciate triangolari, i primi venti numeri in greco. Oggetto alquanto misterioso, di cui ora gli archeologi dovranno chiarire la funzione, tra il didattico e il magico o chissà altro. Ma senza dubbio, oggetto che indica inequivocabilmente la raffinatezza degli abitanti di quelle magioni.
Sulle quali la piccola Grande Madre ha vegliato per più secoli.