BARI - «Oggi sono state depositate le motivazioni della sentenza con la quale la corte d’Appello di Bari ha assolto Raffaele Fitto dal reato di corruzione. La lettura della sentenza conferma in modo inequivocabile la totale estraneità del nostro assistito da ogni ipotesi corruttiva».
Così gli avvocati Francesco Paolo Sisto e Luciano Ancora, difensori di Raffaele Fitto, commentano le motivazioni con cui i giudici nel settembre scorso hanno assolto l’ex ministro dal reato di corruzione al termine del processo di secondo grado per una presunta tangente da 500mila euro per la gestione della Rsa.
Secondo la Procura era stata pagata dall’imprenditore romano Giampaolo Angelucci sotto forma di illecito finanziamento ai partiti. I giudici avevano dichiarato la prescrizione degli altri reati contestati a Fitto, all’epoca dei fatti presidente della Regione Puglia, fra i quali l’illecito finanziamento e due episodi di abuso d’ufficio.
I GIUDICI: SOLO ILLAZIONI - «E' un’illazione» ritenere che l’ex ministro Raffaele Fitto avesse agevolato l’imprenditore romano Giampaolo Angelucci nell’appalto per la gestione delle Rsa in cambio di un finanziamento al suo partito da 500mila euro. E' quanto spiegano i giudici della Corte di Appello di Bari nella sentenza con cui nel settembre scorso hanno assolto Fitto (all’epoca dei fatti presidente della Regione Puglia) e Angelucci dall’accusa di corruzione. In primo grado Fitto era stato condannato a quattro anni.
«Manca la prova - si legge nelle motivazioni - che oltre un anno prima che avesse inizio la campagna elettorale per l'elezione del presidente della Regione Puglia (nel 2005, ndr), tra Fitto e Angelucci fosse intercorso il ritenuto patto illecito diretto all’ottenimento dell’appalto (aggiudicato nel 2004, ndr) contro il pagamento di 500mila euro a titolo di finanziamento».
«L'accusa - continuano i giudici del secondo grado - avrebbe dovuto fornire la prova certa che l’iniziativa (le delibere sulla gestione delle Rsa, ritenute regolari, ndr) fosse il frutto di un accordo criminoso». Tra l’altro rilevano come «dare per dimostrato tale accordo sulla base di un contatto telefonico della durata di tre secondi è fuori di ogni logica fattuale, prima ancora che giuridica». «Una telefonata - dicono ancora - non è sufficiente a ritenere che Angelucci abbia effettuato il finanziamento del partito di Fitto come prezzo pagato per l’aggiudicazione dell’appalto». Il reato, quindi, non sussiste, mentre su quel presunto finanziamento illecito a «La Puglia Prima di Tutto» da 500mila euro, i giudici parlano di finanziamento «irregolare», tuttavia ormai prescritto.
E prescritto è anche il contestato peculato, riqualificato in abuso d’ufficio, relativo all’utilizzo del fondo del presidente. Secondo la Corte di Appello, infatti, gli oltre 180mila euro dati ad associazioni e enti «non erano spese di rappresentanza» perché «Fitto - spiegano - ha attinto dal fondo in un ristretto periodo, quello della campagna elettorale, per effettuare elargizioni non spettanti a soggetti pubblici e privati, la maggior parte dei quali salentini, che costituivano per Fitto, sarebbe arduo negarlo, il maggior bacino elettorale».