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Il libro - L'utopia di Woodstock nel racconto di chi l'ha vissuta

 
Il libro - L'utopia di Woodstock nel racconto di chi l'ha vissuta

Giovedì 22 Novembre 2007, 00:00

19 Dicembre 2024, 17:21

1969: America nel caos, uomini politici assassinati, soldati impantanati in una guerra ingiusta all'altro capo del mondo. Ma a Woodstock, dintorni di Bethel, vicino New York, dal 15 al 17 agosto si celebrano tre giorni di amore, pace e musica. Il maggior evento giovanile del XX secolo: una memoria ancora immutata che permette a signori oramai attempati di dire a distanza di quasi 40 anni «io c'ero» a quello che è considerato uno dei più grandi show della storia rock-pop.
Paytress, giornalista britannico tra i migliori, ha messo insieme cento anni «di celeberrimi concerti e leggendari momenti di spettacolo, selezionati per il loro significato storico, per al capacità di definire un'epoca o perchè, appunto, valeva la pena di esserci». E in effetti quello di Woodstock segnò una stagione ancora oggi vista come l'irripetibile occasione per cambiare la società. Anche se - ed è lo stesso Paytress a scriverlo - la tre giorni di Woodstock, dietro i corpi dipinti di colori vivaci e i sorrisi un pò irrigiditi indotti dall'Lsd, non fu certo «l'idillio tramandato dalla leggenda». A meno di non essere presenti all'alba dell'ultimo giorno, dopo una notte di tregenda tra sballo e pioggia, quando la chitarra di Jimi Hendrix rivisitò Star-Splangled Banner, l'inno Usa, in modo tale da far capire a tutti che in fondo gli Stati Uniti erano soltanto «in guerra con se stessi». Quel brano distorto da Jimi il Magnifico era il miglior discorso politico di quell'epoca.
A sfogliare le pagine piene di fotografie del libro, certo non può passare sotto silenzio l'altro concerto cult di quegli anni: quello nella piccola isola di Wight, a largo dela costa sud dell'Inghilterra, dal 26 al 30 agosto del 1970 e che vide il ritorno di Bob Dylan. Una gioventù che, però, non era più quella di Woodstock: sfiancata da droghe, dissensi, visioni impossibili, si sarebbe presto indirizzata verso anni bui.
Certo ci sarebbe stato l'anno dopo il concerto per il BanglaDesh al Madison Square Garden di New York, organizzato da George Harrison, uno dei Fab Four, stanco di sentir dire alla gente, di fronte al disastro che il Pakistan orientale (Bangladesh) stava vivendo, «io che posso fare?». Ci pensò lui direttamente insieme ad un gruppo di musicisti di tutto rispetto. Quel concerto fu un pò la prova generale del Live Aid di 14 anni dopo: 16 ore di musica, due sedi (Wembley e JFK Stadium), 60 tra gruppi e solisti, 1 miliardo e mezzo di spettatori, con un brano di chiusura, We are the world, entrato nella leggenda. Dietro questo che forse è stato il «più grande spettacolo mai visto», un musicista non eccelso come Bob Geldof diventato poi baronetto. Ma fu lui ad intuire che il rock era in grado di smuovere le coscienze e, soprattutto, le relative borse. Una raccolta di soldi impressionante e un diluvio di diritti d'autore. Del resto il binomio musica e impegno sociale non era nuovo: nel 1968, un grandissimo cantante-chitarrista country aveva incendiato (di musica) la prigione di Folsom in California: lui si chiamava Johnny Cash e di prigioni se ne intendeva. C'era in lui - raccontò la moglie - qualcosa che «lo affratellava» alle persone dietro le sbarre. Pochi anni dopo bissò nella prigione di San Quentin. Come non era nuovo neanche il binomio musica e politica: nel luglio del 1969 allo Estadio Chile di Santiago del Cile, lo straordinario folksinger e poeta sudamericano, Victor Jara, tenne un memorabile concerto di canzoni popolari. Lo stesso stadio, nel 1973, lo vide prigioniero dopo il colpo di stato di Augusto Pinochet con l'aiuto degli Usa. Il sogno di 'Unidad popular' di Salvador Allende era finito nel sangue, come Victor, ucciso e buttato in una fossa comune dai soldati della Junta militar.
Mark Paytress, Io c'ero Giunti, p.320, 20 Euro

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