BARI - Nel 2006 era una delle stelle del distretto del salotto della Murgia, con 72 milioni di fatturato ed esportazioni in mezzo mondo. Ma solo due anni dopo, la Incanto Group di Altamura ha cominciato la inesorabile discesa che nel 2012 l’ha condotta al fallimento, lasciando per strada 300 famiglie. Ora la procura di Bari ritiene che l’azienda sia stata condotta alla bancarotta, svuotandola del patrimonio e facendola produrre e vendere in perdita, anche per grandi marchi nazionali che hanno così potuto ottenere divani realizzati sottocosto: le differenze, alla fine, le pagheranno i creditori.
L’indagine per bancarotta fraudolenta è condotta dal pm Giuseppe Dentamaro, che pochi giorni fa ha ricevuto una relazione dettagliata da parte dei curatori fallimentari. Dall’analisi dei bilanci e delle scritture contabili, infatti, gli stessi curatori avevano rilevato gravi irregolarità nei conti tanto da indurre il Tribunale di Bari a respingere la richiesta di concordato preventivo (presentata a fine 2011) e dichiarare il fallimento della società con debiti per 38 milioni: ma dell’attivo di 26 milioni, dichiarato dai proprietari, ne sono stati trovati a malapena cinque.
L’ipotesi su cui ora si concentreranno le indagini penali è che la crescita della Incanto Group sia stata ottenuta anche tramite artifici contabili che, anno dopo anno, sono serviti a nascondere la situazione reale. Sono saltate fuori, ad esempio, una serie di società estere che - secondo quanto accertato dai curatori nella relazione ex articolo 33 - sarebbero state utilizzate per gonfiare il valore dei marchi: 17 milioni secondo Incanto, 1,1 milioni secondo i periti della procedura. Ne è un esempio quanto accaduto nel 2008, quando l’amministratore di Incanto, Mario Sforza, vende a una società ungherese (con 1.700 euro di capitale, e riconducibile sempre agli stessi proprietari) il marchio Sofitalia International per 4,8 milioni. Soldi che non saranno mai pagati. Tre anni dopo, un giorno prima di chiudere i bilanci da depositare in sede di concordato, Incanto azzera il credito, «evidentemente con il solo interesse di sopravvalutare, fittiziamente, il patrimonio aziendale».
La tesi emersa in sede fallimentare, adesso diventata materia per la Procura, è che a partire dal 2008 i conti della società non fossero più veritieri. E che anzi fosse cominciata una vera e propria corsa a svuotare Incanto, per ripartire con una società pulita. «Si può evincere, da un’analisi delle voci di bilancio afferenti al costo della produzione - scrivono sempre i curatori -, che nel corso del 2008 l’azienda ha commercializzato i propri prodotti a prezzi inferiori ai soli costi diretti di produzione». Nel corso degli anni, i titolari di Incanto hanno costituito una ragnatela di nuove società che poi - anche dopo il fallimento della Incanto - hanno continuato a produrre divani utilizzando gli stessi marchi, pur risultando senza dipendenti: utilizzavano quelli della società fallita, lo stesso stabilimento, le stesse attrezzature e probabilmente anche le stesse materie prime (che infatti non sono più state ritrovate). Anche gli ordini che Incanto aveva in portafoglio al giorno della richiesta di concordato sono stati ceduti ad una delle nuove società, praticamente gratis: un danno da oltre un milione. E c’era anche una società aperta a Honk Kong per vendere in Cina.
Ma da questo punto di vista è emersa una circostanza ancora più inquientante, che richiama le numerose polemiche sulla concorrenza selvaggia nel settore dei divani. Nella contabilità della società fallita sono stati trovati i contratti tra una dlele nuove società e due grossi marchi nazionali, con sede in Brianza, entrambi riconducibili alla stessa famiglia di imprenditori: una parte dei loro divani venivano prodotti ad Altamura, negli stabilimenti della Incanto, evidentemente a costi competitivi. La Procura dovrà verificare anche questa circostanza, perché potrebbe aver contribuito ad allargare il buco lasciato dalla Incanto.