Dopo Bari, Firenze. Da domani al 27 febbraio si svolgerà nel capoluogo toscano l’Incontro dei vescovi e sindaci del Mediterraneo. Come accadde a Bari nel 2020, l’evento si concluderà con la visita di papa Francesco domenica 27. Nello stesso giorno parteciperà il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. All’apertura dei lavori anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi. La manifestazione è stata presentata nei giorni scorsi dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, dal cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze e da monsignor Antonino Raspanti, vice presidente della Cei per l’Italia meridionale. A monsignor Raspanti abbiamo rivolto alcune domande sul delicato momento che il Sud dell’Italia sta vivendo.
Eccellenza, dopo Bari nel 2020 leader religiosi e politici tornano a parlare di pace e Mediterraneo.
«A Firenze la grande novità è la partecipazione di cento sindaci, invitati – in accordo con la Cei – dal sindaco Nardella. Non cambiano l’impostazione e il nocciolo del percorso avviato a Bari, però si allarga l’orizzonte e pone domande alle comunità cristiane mediterranee nel rapporto con la società e in qualche modo con la politica. Secondo l’ispirazione di papa Francesco della “Chiesa in uscita”, l’incontro ci apre alla domanda circa il modo in cui siamo presenti nelle nostre città, cosa facciamo per dare un contributo coerente con la nostra fede, in termini di accoglienza, in termini di collaborazione con tutte le altre componenti sociali di fedi diverse, di mentalità diverse, con culture diverse».
Quale realtà avrete davanti dopo due anni di epidemia, quali effetti si sono prodotti nel tessuto sociale, in particolare al Sud?
«Da punto di vista della pratica religiosa al Sud ci sono stati gli stessi problemi che nel resto d’Italia. Si è invece aggravata una situazione che già ci vedeva svantaggiati sotto gli altri punti di vista, cui si è aggiunto anche l’aspetto relazionale. E questo ce l’aspettavamo meno. La pandemia, con la convivenza forzata e la minore possibilità di comunicare, ha messo tutti sotto pressione. Abbiamo avuto il contraccolpo di relazioni familiari stressate e deteriorate. Proprio nel Sud, dove questi legami sembrava fossero più solidi. In più non si è fermata l’emorragia di giovani che da almeno 10 anni, per lavoro o per studio, vanno verso il Nord Italia o verso l’estero. Un flusso continuo che implica lo spopolamento dei nostri paesi: so bene della mia Sicilia, ma anche di Calabria, Basilicata, Puglia e Sardegna. Alla fine il virus ha accentuato le grandi criticità e fragilità che il Mezzogiorno d’Italia si porta sempre più pesantemente con sé. Solo che oggi la questione meridionale non è più un tema nel dibattito pubblico nazionale».
Ma il Pnrr mette a disposizione risorse economiche straordinarie proprio per superare questo antico divario: sarà capace il Sud di sfruttare in pieno questa occasione?
«C’era e c’è un vincolo messo nero su bianco dall’Ue di destinare il 40% delle risorse al Sud. Ma l’esperienza degli ultimi 30 anni con i fondi europei è stata purtroppo dolorosa. Siamo rimasti incredibilmente arretrati rispetto a quanto fatto in Spagna, Portogallo, Polonia. E ciò per la povertà culturale e intellettuale della classe dirigente, dalla politica alla pubblica amministrazione ma anche alle imprese. Non solo non hanno saputo programmare, ma non hanno nemmeno mostrato competenza. Mi dispiace per le parole pesanti, ma la vera povertà del Sud è la mancanza di una classe dirigente all’altezza e competente. I soldi sono solo un’opportunità: la vera forza sono gli uomini e le donne. L’impoverimento del Sud è dato dall’emorragia di giovani. Investiamo denaro, ma non “reinventiamo” uomini, cioè non si dà loro la possibilità di rimanere o di tornare. Alla fine il rischio è che facilitiamo la corruzione e le mafie, che somme ingenti di denaro restino inutilizzate o siano utilizzate male».
E allora che fare?
«Penso che esistano misure concrete per far tornare al Sud energie: non solo incentivi economici, serve anche maggiore giustizia, maggiore certezza del diritto, meno clientelismo becero. Se nelle nostre università devono sempre vincere i baronati e non le intelligenze migliori è chiaro che il giovane capace se ne va; altrettanto dicasi nella pubblica amministrazione. Al Sud abbiamo il sole, il mare, bei monumenti, un clima favorevole, ma la qualità della vita è pessima: per entrare nel mondo del lavoro, per superare le corruttele, per tener testa alle mafie, per districarsi tra gineprai incredibili di burocrazie e furberie. È chiaro che se altrove la vita è un po’ più serena e vi sono varchi meno faticosi e più appaganti, i giovani vanno via».
Ha accennato al fenomeno corruzione, è davvero inestinguibile, soprattutto qui al Sud?
«Non c’è nulla di inestinguibile, è opera degli uomini. Ci vogliono impegno, continuità, efficacia e quello scatto di moralità che oggi manca, a tutti i livelli, non ultimo tra le file ecclesiastiche, come apertamente afferma anche papa Francesco. Anche all’interno del clero non sempre riusciamo a educare e portare avanti personalità che brillino per coerenza morale. Allora ci vuole questo scatto di moralità, ma anche perseguire la giustizia. Il presidente Mattarella nel discorso della rielezione l’ha detto chiaramente: se non si riforma, se non c’è una certezza del diritto e delle pene, uno Stato o un popolo non possono andare avanti. La corruzione si può battere ma non è una passeggiata né si può farlo in uno o due anni».
La Chiesa ha qualcosa da rimproverarsi in questa caduta di moralità? Per esempio, si percepisce un rinnovato impegno nelle varie forme di volontariato, ma c’è un calo dell’attività educativa nelle parrocchie.
«Soprattutto nel Meridione, dove il fenomeno è più grave, abbiamo difficoltà a trovare educatori. E la pandemia ha dato un’altra sferzata. Si stanno creando vuoti per il mancato avvicendamento di catechisti, animatori, allenatori di gruppi sportivi, che hanno ormai una certa età. I volontari di 30 o 40 anni fa avevano più tempo libero da mettere a disposizione. Oggi l’impostazione della società è cambiata: esige un tempo di lavoro prolungato. In più il tempo libero è colonizzato da una serie di proposte dell’industria del divertimento. Le gite, le vacanze, il cinema, le palestre, il teatro danno peraltro lavoro a molte persone e costituiscono un’industria del consumo che esige il nostro tempo. Altri ci organizzano il tempo. È cambiato il costume e questo influisce profondamente sull’impostazione della pastorale, che è andata avanti sempre con gli stessi schemi, attingendo a risorse sempre più scarse».
Quanto allora tutto questo influisce sulla caduta di moralità?
«Incide enormemente. Ai tempi di Mani pulite negli anni ’90, ci fu smarrimento di fronte alle corruttele che si scoprivano. Molte componenti della società italiana – liberali, socialiste – fecero appelli da tv e giornali affinché la Chiesa e i cattolici contribuissero fortemente a recuperare risorse moralmente sane, uomini e donne di un certo valore. Oggi vedendo che il mondo cattolico non è più quello, giornalisti, opinion maker e politici scoprono che l’impianto cattolico si è indebolito fortemente, con un conseguente crollo di credibilità. Inoltre, dal Duemila in poi è partita la fase degli scandali nella Chiesa: economici, sessuali della pedofilia. Di contro, né i partiti né altre agenzie educative – la scuola, per esempio – sono riuscite a dare una spinta morale, perché le fonti cui attingono sono davvero esigue o nulle. Tutto questo ci sta portando verso un’oscurità, un buio enorme, nel quale non è semplicissimo ritrovare dei punti di luce. Credo però che la Chiesa cattolica, attraverso la fede in Cristo, abbia le possibilità e le forze per ritrovare vigore. Ci vuole tempo e ci vogliono uomini e donne che con slancio e una scelta di autenticità della sequela di Cristo, piano piano ricostruiscano un tessuto molto logorato».