BARI - Un parto che 32 anni fa sembrerebbe essere stato gestito in maniera errata. Un bambino, oggi uomo, che ha riportato danni cerebrali irreversibili. Una sentenza di Appello che ha ribaltato la decisione di primo grado calcolando quanto vale una vita distrutta e condannando la Regione e la Gestione liquidatoria della Asl Bari a un risarcimento enorme: 2.400.000 euro, che per effetto del tempo trascorso diventano, a oggi, 4.600.000 euro. Una cifra capace di far saltare un bilancio.
La questione giuridica è complessa e verte sulla prescrizione o meno del diritto al risarcimento. La famiglia del bambino (di cui all’epoca era tutore il padre, nel frattempo deceduto, cui oggi è subentrata la madre che ha 73 anni) presentò la richiesta di danni nove anni dopo il parto alla Asl Bari/3 e al vecchio ’ospedale «Umberto I» di Altamura: per i giudici di primo grado interpellò i soggetti sbagliati, per quelli di appello (Seconda sezione civile, presidente di Leo, relatore Noviello) invece si rivolse a una articolazione differente (l’ospedale) del giusto ente, ovvero la Gestione liquidatoria della ex Usl Bari/7. A complicare ulteriormente le cose il fatto che nel 2012 il commissario liquidatore (il direttore generale della Asl in carica all’epoca) non si costituì nel giudizio di appello, decisione che ora rende difficilissimo il tentativo di Regione (con l’avvocato Flora Caputi) e della Asl Bari (Elio Pappalepore) di ricorrere in Cassazione.
I giudici di appello hanno riconosciuto la colpa medica sulla base della perizia effettuata in primo grado dal medico legale Biagio Solarino, secondo cui le gravi patologie del bambino (tetraparesi spastica, ritardo mentale medio e gravi disturbi neurologici del linguaggio) sono «certamente» riconducibili alla condotta dei medici dell’ostetricia del vecchio ospedale di Altamura, dove la madre fu ricoverata tra il 21 settembre e il 3 ottobre 1987 con tutti i segni di una gravidanza a rischio (età elevata, precedenti parti macrosomici). I medici - secondo la perizia - «non provvidero tempestivamente ad effettuare un taglio cesareo (...), ritardando e complicando il travaglio dell’espletamento del parto con un tentativo di parto vaginale provocando uno stato di sofferenza fetale con ipossia perinatale». Il giorno del parto, dopo 4 ore dalla «somministrazione della ossitocina per indurre il travaglio (...), non essendosi registrata alcuna progressione della parte presentata cefalica fu disposto il parto cesareo». Ma l’aiuto anziano in servizio «decise di tentare l’espletamento del parto per via vaginale con l’uso del forcipe, fallendo (...), tanto che il parto cesareo venne infine praticato ma con un ritardo di almeno 90 minuti, ma più verosimilmente di 120-150 minuti, rispetto alla decisione iniziale». La madre - secondo la sentenza - «era un soggetto a rischio per la quale il taglio cesareo si sarebbe dovuto disporre sin da subito, senza indugi».
I giudici hanno dunque riconosciuto il risarcimento del danno al bambino, ora adulto, ma non quello indiretto causato ai genitori (in quanto prescritto). È stato il bambino ad essere privato «pressoché in toto, della vita interiore e della normale vita di relazione, ha dovuto sopportare ripetuti ricoveri perché sottoposto a continui percorsi terapeutici e riabilitativi, si trova in condizione di completa dipendenza dai terzi, non ha alcuna speranza di miglioramento o recupero». Nei calcoli della sentenza c’è il valore di una vita persa, il mancato guadagno ma anche il costo passato e futuro dell’assistenza specializzata necessaria fino alla morte. Il pagamento non è ancora avvenuto (la Regione ha presentato richiesta di inibitoria), ma tutti i soldi del mondo non possono risarcire il valore di una esistenza distrutta.
















