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Altro che ladri di galline, 31 anni fa la sentenza sulla mafiosità della Società

 
Redazione Foggia

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Altro che ladri di galline, 31 anni fa la sentenza sulla mafiosità della Società

Ignota da bambina; ancora sconosciuta da ragazza; poi sottostimata da adolescente; quindi sottovalutata da adulta. E oggi che la “Società foggiana” guarda ai suoi 40 anni di vita e soprattutto morte

Martedì 29 Luglio 2025, 10:58

Ignota da bambina; ancora sconosciuta da ragazza; poi sottostimata da adolescente; quindi sottovalutata da adulta. E oggi che la “Società foggiana” guarda ai suoi 40 anni di vita e soprattutto morte, sorride ripensando a un passato che si intestardiva nel non conoscerla. E guarda preoccupata ma non abbattuta da blitz, condanne, pentimenti a un presente che le dà la… giusta visibilità, peraltro né voluta né cercata, con la fama di quarta mafia d’Italia. Un posto a tavola dietro Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, conquistato con ferocia, entrando nel narcotraffico offrendo le “sue” coste (quelle del Gargano) allo sbarco di tonnellate di droga in arrivo dall’Albania per essere smistate in tutta Italia.

La prima volta - La mattina del 29 luglio 1994, 31 anni fa, il presidente della corte d’assise di Foggia, Pio D’Errico la pronunciò la parola innominabile sino ad allora in un’aula di Giustizia: questa è mafia. Nel nome, nel ricordo, alla memoria di Giovanni Panunzio per 73 udienze fu celebrato il maxi-processo che sancì la mafiosità della “Società”, costruito sul sacrificio del costruttore ucciso dal racket il 6 novembre ’92 per non aver pagato i 2 miliardi imposti e denunciato gli estorsori. “La corte letti gli articoli…, dichiara… colpevole dei reati a lui ascritti al capo A”, e via a leggere un dispositivo lungo 11 pagina: 67 imputati, 21 assolti, 47 condanne a 413 anni e un ergastolo. Dove il capo A riconosciuto sussistente per 35 foggiani, recitava così: “aver costituito o comunque preso parte a un’associazione per delinquere armata di stampo mafioso-camorristico; e in particolare per essersi associati tra loro al fine di commettere un numero indeterminato di delitti di omicidio, tentato omicidio, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, furto e ricettazione. E ogni altro reato utile ai fini dello sviluppo e della permanenza dell’associazione”.

10 anni dopo La sentenza riconobbe quello che i mafiosi già sapevano da una decina d’anni: di… esistere. Fu nei primi anni Ottanta che i foggiani, non più subordinati alla Nuova camorra organizzata di don Raffaele Cutolo che nel ’78 vicino Foggia battezzò i primi picciotti di casa nostra si misero in proprio. Da una parta mutuarono riti di affiliazione da camorra e ‘ndrangheta che davano il senso di appartenenza: “Siamo qui a riunire società, come la riunirono i nostri tre vecchi fondatori: conte Ugolino, Fiorentin di Russia e cavalier di Spagna. Giuro su questa punta di pugnale di sconoscere madre, padre, fratelli e sorelle; e giuro di dividere centesimo per centesimo, con un piede nella fossa e l’altro alla catena, di dar man forte alla galera”. Dall’altra si ispirarono a Cosa nostra quanto a ferocia. Negli anni Ottanta/Novanta solo mafia siciliana e “Società foggiana” uccidevano chi si ribellava al racket. Giovanni Panunzio, prima di lui Nicola Ciuffreda; un’altra mezza dozzina di costruttori sparati, bombardati, minacciati, rischiò d’essere abbattute perché la mafia foggiana investì sul terrore. E lo fece drammaticamente con successo. Eppure ci vollero anni perché investigatori, magistrati, città si confrontasse con una realtà che si credeva appartenesse ad altri lidi. Sino a dover poi spalancare gli occhi sul cadavere di Panunzio. Anche dopo la sentenza del maxi-processo le sottovalutazioni sarebbero proseguite per anni. Definendo la Società come una mafia stracciona. Che intanto faceva affari, soldi, si evolveva in borghesia mafiosa, la terra di mezzo dove si incontrano e si abbracciano interessi malavitosi, imprenditoriali, politici.

“Non si vede” “La mafia non si vede, non si deve vedere, ma può diventare visibile”. Così a pagina 73 delle 321 della motivazione di condanna, la corte d’assise sintetizzava il modus operandi dei mafiosi foggiani. Altro che “ladri di galline”, come disse in aula un vecchio boss ammazzato 14 anni dopo in un agguato rimasto impunito. I giudici analizzarono l’interrogatorio reso da un emergente, poi diventato capo-clan negli anni, che parlò della paura diffusa dopo il ferimento di un boss: “paura che l’amico potesse pentirsi” (non successe); “si tratta di un’ammissione importante perché un non collaborante parla ai magistrati del timore di un possibile pentimento. Ne deriva che c’era chi aveva da pentirsi; si intravvedeva un’entità collettiva indistinta che non si doveva vedere ma che poteva diventare visibile, temendo le possibili conseguenze di un’incrinatura interna, cioè di un pentimento”.

La forza dell’omertà Invece l’omertà resse. “In questo processo è così evidente da percepirsi al tatto” scrisse la corte, citando una serie “di casi emblematici”. Costruttori sotto estorsione “che non hanno avuto nemmeno la forza di ammettere la loro paura”. Intermediari in estorsioni che “per ubbidire alla legge ferrea e ineludibile dell’omertà, per cui i fatti devono restare muti e la verità rimanere opaca, preferiscono patteggiare condanne per false dichiarazioni piuttosto che parlare”.

Ieri e oggi La fotografia scattata dalla corte d’assise di Foggia con la sentenza del 29 luglio ’94 racconta una “Società” che nel suo dna è la stessa di oggi, pur se un tempo era una struttura verticistica mentre da decenni si è divisa in batterie che periodicamente si fanno la guerra salvo rinsaldarsi nel fine comune. “Una mafia ricca di mezzi e pronta a colpire chiunque ostacoli il suo cammino. Una mafia che agisce, che lucra, che uccide come e quando vuole. E tutto questo - ciò che più avvilisce e sgomenta – alle spalle dei pubblici poteri, per cui si piomba in un clima di sfiducia e terrore insieme, nel quale non solo la nostra sopravvivenza ma anche la nostra dignità si sentono minacciare e quasi soverchiare come da un potere ineludibile”. Analisi del ’94; da copia e incolla 31 anni dopo.

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