Martedì 30 Settembre 2025 | 18:38

Ramelli, Milano 1975: se uccidere un ragazzo non è un reato

 
Michele De Feudis

Reporter:

Michele De Feudis

Ramelli, Milano 1975: se uccidere un ragazzo non è un reato

Nicola Rao, direttore della Comunicazione Rai, invita il lettore a tuffarsi nell’Italia lacerata degli anni settanta con «Il tempo delle chiavi», edito da Piemme, libro-inchiesta sull’omicidio dello studente di destra Sergio Ramelli, ucciso a colpi di chiave inglese cinquant’anni fa

Mercoledì 13 Novembre 2024, 13:36

«Basette lunghe. Minigonne. Zampe d’elefante. Tv in bianco e nero. Mina e Ornella. Il Derby di Jannacci e di Cochi e Renato. La via Gluck di Celentano. Rivera e Mazzola. E poi il fumo. Odore forte di fumo di sigaretta sempre e ovunque. Nei cinema, nelle sale, negli uffici, nei bar, nei ristoranti. Una città tra fumo e nebbia. Anzi, un universo tra fumo e nebbia. Sì, perché la Milano dei primi anni Settanta è una galassia in cui convivono tanti mondi diversi, praticamente ignorandosi»: con un incipit cinematografico, una versione meneghina di «Trainspotting» Nicola Rao, direttore della Comunicazione Rai, invita il lettore a tuffarsi nell’Italia lacerata degli anni settanta. Lo fa con «Il tempo delle chiavi», (presentato sabato ad Andria) edito da Piemme, libro-inchiesta sull’omicidio dello studente di destra Sergio Ramelli, ucciso a colpi di chiave inglese cinquant’anni fa (il 29 aprile, dopo 47 giorni di agonia), e nei cui atti giudiziari - che hanno inchiodato le mani insanguinate dei militanti di Avanguardia operaia - c’è anche una dolorosa appendice pugliese.

La ricerca storico-giornalistica di Rao ha la forza del racconto in presa diretta di tanti testimoni di una stagione nella quale la tensione tra giovani di destra e di sinistra aveva burattinai raffinati, mentre le città risultavano devastate da un conflitto a bassa intensità, con quartieri nei quali era inibito l’accesso ai militanti di una specifica parte politico, senza dimenticare che si poteva esser pestati solo per aver indossato uno stivale o un eskimo nel posto «sbagliato». Milano diventò negli anni settanta l’epicentro di questa strategia, da Piazza Fontana all’omicidio dell’agente Marino. In questo contesto la persecuzione politica e fisica perpetrata dall’estrema sinistra nei confronti di uno studente ribelle, dai capelli lunghi, appassionato per il calcio e per il patriottismo è una storia simbolo. «Sergio Ramelli ormai ha capito che ora è lui il “pericolo numero uno” della scuola. Il bersaglio da puntare, logorare e poi abbattere»: Rao racconta, raccogliendo le voci dei suoi sodali (tra cui l’andriese Riccardo De Corato, allora dirigente giovanile e ora parlamentare), era stato visto volantinare per il Fronte della Gioventù dalle sentinelle rosse, poi fu scoperto un suo tema d’italiano contro le Brigate rosse e quindi entrò nell’occhio del ciclone, picchiato, costretto a cancellare scritte fuori dalla scuola, aggredito anche in presenza del padre che chiedeva alla preside il nullaosta per andare in un istituto privato.

Il 13 marzo Sergio stava legando il suo motorino sotto casa. Il servizio d’ordine di Avanguardia Operaia decise di dargli una lezione. Lo attaccarono senza pietà in due o tre. Lui si riparò la testa ma la botta fu atroce. Sangue e materia cerebrale sull’asfalto. Gli assassini erano studenti di medicina. Solo dieci anni dopo, grazie all’inchiesta del giudice istruttore Guido Salvini e alle informazioni giunte da una militante, e alla perseveranza di Ignazio La Russa, avvocato della famiglia Ramelli, si arrivò a scoprire i colpevoli. Studenti di medici. Erano contenti di essere chiamati «idraulici» perché colpivano i rivali con le chiavi inglesi Hazet 36.

Tra i condannati per «correità», con sentenza passata in giudicato, c’è anche un medico pugliese. Quando fu coinvolto era capogruppo del Pci a Cerignola. Si è sempre proclamato innocente, e anche La Russa ha avuto dubbi (insieme a Salvatore Tatarella) sulla sua presenza durante l’aggressione fatale a Ramelli (le testimonianze furono in alcuni casi contraddittorie). Il condannato, sulla vicenda, il massimo che ha proferito negli ultimi anni è stato questo passaggio in un lettera, scaturita da una richiesta di chiarezza avanzata dall’allora consigliere regionale Nino Marmo: «Pur dichiarandomi innocente, ho sempre avuto chiaro che il dolore della madre di Ramelli era più importante di tutto il resto». Una posizione dunque «innocentista» (senza una profonda autocritica sul passato da componente di un servizio d’ordine efferato al pari dei Katanga) che, se vale per questo caso, può avere legittimità - a giudizio di chi scrive - anche per Adriano Sofri, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti.

Quello che sarà difficile invece dimenticare è il peloso giustificazionismo del mondo accademico vicino alla sinistra. Parole, riportate da Rao nel saggio, che restano testimonianza di rara miseria generata dal fanatismo ideologico (il riferimento è Ludovico Geymonat e Stefano Rodotà). In quel dibattito l’umanità si ritrovò solo nelle parole di Miriam Mafai e Claudio Petruccioli, deputato del Pci che fu netto: «Basta con gli equivoci: per Ramelli non usiamo il termine “errore”. E non chiediamo aiuto alla morale per giustificare le azioni politiche. Quando sono giuste le ragioni politiche, non c’è bisogno di ricorrere al giudizio morale. Gli aggressori di Ramelli sono stati arrestati non perché antifascisti, ma perché hanno compiuto un gesto criminale. Dunque sì alle spiegazioni e no alle giustificazioni». Tra le atrocità ricostruite da Rao c’è anche l’applauso del pubblico del consiglio comunale di Milano che salutò la notizia dell’aggressione subita da Ramelli. Dopo 50 anni, e le cronache ne sono una conferma, non s’è ancora fatto abbastanza per recidere con forza le radici dell’odio politico. Per Sergio e per i tanti ragazzi, di destra e di sinistra, che sognavano un’Italia migliore.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)