Chi parla di occupazione dovrebbe maneggiare con cura le informazioni disponibili, prima di saltare a facili conclusioni. Basti pensare alla fondamentale distinzione tra occupazione e occupati, immediatamente percepibile con un esempio: se un posto di lavoro a tempo pieno (40 ore settimanali) viene suddiviso in due posti di lavoro a tempo parziale (20 ore settimanali ciascuno), ciò che aumenta (addirittura, raddoppia) è solo il numero degli occupati, non certo l’occupazione (intesa come quantità di lavoro complessivamente disponibile).
Lo stesso dicasi per le forme di lavoro temporaneo: un posto di lavoro che viene coperto da più lavoratori a termine – che si avvicendano – è sempre lo stesso, anche se genera più occupati.
Con questo spirito, andrebbe (ri)letta la nota ISTAT dello scorso 9 gennaio, relativa a novembre 2023. Bisognerebbe leggerne il glossario (pag. 8), ove è chiarito (in linea con gli standard internazionali) che per «occupati» si intendono le persone tra 15 e 89 anni che nella settimana di riferimento «hanno svolto almeno un’ora di lavoro a fini di retribuzione o di profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti». Chiaro, no? Inoltre, per «occupati dipendenti a tempo indeterminato o permanenti» (di cui si segnala, effettivamente, un incremento) si intendono gli «occupati con un rapporto di lavoro dipendente, regolato o meno da contratto, per il quale non è definito alcun termine».
Ai fini di questa rilevazione, dunque, i lavoratori irregolari, a nero, sono considerati stabilmente occupati.
Inoltre, nell’occupazione a tempo indeterminato è inclusa anche la quota di lavoro part-time, spesso involontario (ossia non cercato dal lavoratore o dalla lavoratrice per soddisfare esigenze di equilibrio tra vita e lavoro).
Non deve stupire, dunque, che accada quanto rilevato nei Rapporti di previsione del Centro Studi Confindustria (autunno 2023, pag. 28) con riferimento al 2° trimestre 2023, ossia che «sono calate le ore lavorate per occupato, mentre è proseguita l’espansione del numero di persone occupate».
Diversamente dall’ISTAT, nel suo Osservatorio sul Precariato l’INPS rileva unicamente il lavoro regolare (attraverso le denunce mensili unimens, da cui sono esclusi lavoratori domestici e operai agricoli). Ebbene, analizzando il periodo gennaio- settembre 2023, emerge che sono stati attivati 6.271.872 nuovi rapporti di lavoro.
Ma quello che colpisce è la qualità di questi nuove attivazioni, costituite solo per il 16,5% circa da assunzioni a tempo indeterminato, a cui possiamo aggiungere le assunzioni in apprendistato (4% circa). Il resto è lavoro precario o, comunque, discontinuo: assunzioni a termine (ben 2.775.895), stagionali, in somministrazione e con contratto di lavoro intermittente, a cui bisognerebbe aggiungere le figure di lavoratori non tracciati da questa rilevazione: lavoratori parasubordinati, fittiziamente autonomi, occasionali, stagisti, ecc.
Ancora più significativo il quadro che emerge dal Rapporto INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) del dicembre 2023 (ma riferito al 2022), da cui si evince che «i rapporti di lavoro a tempo determinato si confermano la categoria con il numero maggiore di attivazioni e di cessazioni: più del 68% dei nuovi contratti sono a tempo determinato, mentre il 15% sono a tempo indeterminato”. E, in conclusione, “il carattere discontinuo dei contratti nel nostro mercato del lavoro è confermato dalla durata dei rapporti cessati»: circa il 34% di questi ultimi ha «una durata che non supera i 30 giorni, di cui 1,5 milioni di contratti hanno durata di un giorno».
È bene poi alzare il naso dal contesto nazionale e guardarsi attorno: come riportato nell’ultimo Rapporto INPS (settembre 2023), «il tasso di occupazione italiano, per quanto al massimo storico, è ancora nettamente inferiore alla media UE».
Infine, non dimentichiamo che la qualità del lavoro si misura, se non anche in termini di soddisfazione professionale (tema complesso da sviluppare attraverso i numeri), quantomeno in termini salariali.
Qui c’è veramente poco da aggiungere: il costante incremento dei working poors (anche nell’area del lavoro regolare) è un fenomeno confermato da tutte le rilevazioni disponibili.