In una lettera del 4 settembre 1820 indirizzata al suo amico Pietro Giordani, Leopardi afferma di aver iniziato ad abbozzare «certe prosette satiriche» con l’intento di «vendicarsi del mondo e quasi della virtù». È nelle Operette morali che però il poeta, che si trasforma in filosofo per quel bisogno di verità in lui diventato ormai imperante, paleserà l’ambizione di scoprire la causa dell’infelicità del genere umano che fino a quel momento egli credeva derivasse all’uomo da ragioni storiche, per essersi, con il progresso, allontanato dalla originaria condizione di beatitudine. Ma ora Leopardi giunge a un convincimento più amaro e definitivo: il Dolore dentro la Vita e dentro il Mondo è determinato dalla Natura che provvede a se stessa, alla sua conservazione, non curandosi minimamente delle sorti degli uomini i cui affanni e le cui pene le sono assolutamente indifferenti!
Nel Dialogo della Natura e un Islandese, Leopardi sceglie di dare corpo e voce proprio alla Natura perché risponda alle angosciose domande sulla vita di un viaggiatore che, dopo aver vagato «per cento parti della terra», fuggendola, e aver sperato di trovare un luogo dove essere in pace, finisce con l’imbattersi proprio in Lei, sfinge indifferente e immobile, e a cui chiede la ragione dei patimenti che infligge agli esseri viventi, scoprendo, infine, avvilito, che ovunque vada non c’è luogo nel mondo in cui non sarà colto dallo spavento, perché è proprio la Natura la nemica del bene dell’umanità: terremoti, tempeste, vulcani sono solo in parte ciò con cui la Natura insidia e rende caduche le nostre esistenze. È forza spietata e impersonale la Natura per Leopardi, nemica della felicità dell’uomo e «lavora» al mantenimento meccanicistico della sola vita di quest’universo che è un perpetuo circuito di produzione e distruzione in cui, senza scopo, pure la morte e il male sono necessari alla conservazione del mondo.
In questi giorni in cui abbiamo visto città e uomini sommersi dalle piogge incessanti, quanti di noi hanno maledetto quell’acqua che seppelliva case, spezzava vite e ci ricordava l’inconsistenza delle forze che possiamo opporre alla devastazione! Sciagure come questa ci obbligano ad arrenderci all’evidenza che l’uomo non è la creatura privilegiata del cosmo, il suo errore è proprio nell’essersi creduto onnipotente, più grande della Natura stessa che sempre nella Storia lo ha provato e piegato. «[...] A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?». Nel dialogo l’Islandese si fa portavoce del genere umano e scopre che non ci si può sottrarre al potere della Natura, immutabile, inconsapevole e indifferente all’infelicità che ci tormenta e al destino verso cui precipitiamo.
Calamità naturali come questa che ha prostrato centinaia di Comuni delle Marche e della Romagna ci portano sempre più spesso a giudicare colpevole, irresponsabile, imprudente l’uomo che ha edificato la propria vita e le città dove non avrebbe dovuto, che ha sfidato, sfruttandone le risorse, la Natura che risponde a questo affronto manifestando la sua spietata vendetta. Ma se fosse vero, invece, come Leopardi ci ha detto, che l’uomo, come l’islandese, per quanto si ostini a cercarlo, non troverà nel mondo luogo in cui la potestà della Natura non lo annienti? Se fosse vano ogni nostro tentativo di proteggerci, allontanarci dal pericolo se è inesorabilmente poi la Natura a decidere la nostra sorte? «Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo».
In momenti così tragici forse non dovremmo accusare l’uomo della sua disperazione, c’è un limite a quello che possiamo fare perché il male e la rovina non ci sorprendano inermi e impotenti. Forse va ridefinito con la Natura un rapporto che non può prescindere da un serio e reciproco riconoscimento di ruoli e limiti. Questo immane disastro, come ogni terremoto, eruzione di un vulcano, deve imporci delle riflessioni coraggiose: non possiamo credere di vivere nel mondo ignorando quella superiore forza che la Natura ha ostentato e ostenta, abbiamo sbagliato a fidarci di chi ci ha raccontato quella favola in cui l’uomo era il padrone di tutte le cose, aveva il dominio sul creato, come se tutto a noi dovesse sottomettersi. L’uomo è una creatura, un «pezzo» di un sistema di cui non dobbiamo dimenticare e soprattutto sottovalutare l’incontrollabile potenza che ci sovrasta e può schiacciarci sempre. Dobbiamo saper attribuire all’uomo le sue responsabilità ma avere anche il coraggio di riconoscere dove finisce la sua colpa e inizia quella della Natura di cui la Storia sa con quanta imperdonabile, cieca crudeltà ci ha tormentati. Non è la Natura ad appartenerci ma siamo noi ad appartenerle e dobbiamo accettare la nostra piccolezza e non sperare di potere mai costruire sulla terra qualcosa che non possa venire travolto e distrutto perché la Natura non opera «in servigio degli uomini».
Vediamo sempre nell’uomo il nemico dell’ambiente ma quanto è più ostile la Natura con noi? Dobbiamo imparare la nostra finitudine o fare i conti con l’impossibilità di diventare in fondo più di quel che siamo stati destinati a essere: parti del Tutto! L’essenza dell’uomo si sostanzia nella sua fragilità e di questa non è responsabile. Forse gli inganni dell’intelletto ci hanno convinto che tutto quello che vogliamo lo possiamo ma non è vero se non riusciamo a impedire perfino alla pioggia di ucciderci! L’illusione antropocentrica del dominio dell’uomo sulla Natura deve lasciare il posto alla più matura e severa consapevolezza della nostra condizione: non possiamo prevedere né dove né quando la Natura si scaglierà contro di noi.
La Natura può essere ferocia o immensa bellezza e l’uomo può solo superare la frustrazione che lo avvilisce ogni volta che perde contro di essa e rinascere attaccato alla vita che non può salvare!