È dal giorno dell’arresto di Matteo Messina di Denaro che in ogni talk show e sulle pagine dei giornali si sente e si legge parlare di «ergastolo ostativo», una espressione coniata dai commentatori che non si trova in alcun testo di legge.
Nel nostro ordinamento esistono due tipi di ergastolo. Il primo, che la dottrina definisce «comune, è suscettibile di essere mitigato rispetto al fine pena mai: il condannato al carcere a vita può, al ricorrere di certe condizioni (sostanzialmente con il decorso del tempo e la buona condotta) accedere al lavoro all’esterno, ai permessi premio, alla semilibertà e persino alla liberazione condizionale.
L’ergastolo cosiddetto «ostativo», invece affligge, dal 1992 (l’anno delle stragi di mafia), chi è stato condannato associazione per delinquere di stampo mafioso e quelli ad essa assimilati, i quali, tuttavia, non sempre riguardano azioni delittuose commesse in un contesto di criminalità organizzata. Sino a poco fa, c’era la preclusione assoluta a qualsiasi beneficio penitenziario per il condannato che non avesse instaurato un valido rapporto di collaborazione con la giustizia. Un varco è stato aperto dalla Corte costituzionale, la quale nel 2019 è intervenuta a scalfire, per l’accesso ai soli permessi premio, l’ostatività, tramutando la presunzione di permanenza della pericolosità sociale del condannato da assoluta in relativa. Per gli altri benefici penitenziari, invece, restava ferma la necessità della collaborazione o dell’accertamento, operando, in caso contrario, la totale preclusione legislativa. Il Governo Meloni ha confermato l’esistenza del doppio binario: ergastolo comune ed ergastolo ostativo (anzi, più in generale, si distingue ancora tra reati comuni e reati «ostativi»). L’adozione della nuova disciplina da parte del legislatore ha consentito alla Corte costituzionale di rimettere gli atti alla Corte di Cassazione per una nuova valutazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione.
Ma sulla compatibilità dell’ergastolo con i principi costituzionali – e in particolare con quello di risocializzazione enunciato dal terzo comma dell’articolo 27 («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato») - il dibattito è aperto da oltre mezzo secolo.
Nel lontano 1956, l’avvocato e giurista Francesco Carnelutti sostenne apertamente che la pena dell’ergastolo fosse inconciliabile con lo scopo della rieducazione cui deve tendere la sanzione: escludendo il ritorno del condannato nella società, l’obiettivo espresso dalla Costituzione si ridurrebbe ad una «rieducazione a vuoto […], una rieducazione in funzione morale, non in funzione sociale; e perciò non la rieducazione voluta dalla Costituzione». Così fatto, l’ergastolo implicherebbe che «la vera offesa alla libertà dell’uomo è quella di vedere ormai in lui un animale incapace di ritornare un uomo». Questa impostazione, tuttavia, è rimasta del tutto minoritaria, specie nell’opinione pubblica, che di certo non si è mai mostrata favorevole all’abolizione dell’ergastolo (si pensi ai diversi quesiti referendari abrogativi, che hanno sempre avuto esito largamente negativo). La spiccata tensione populista che innegabilmente orienta, in misura sempre maggiore, le riforme della giustizia, si muove nel senso del rafforzamento della certezza della pena e della sua funzione repressiva. In questa prospettiva, la pena detentiva perpetua conserva una sua innegabile utilità: non rieducare, ma punire il male con il male. La Costituzione, però, dice tutt’altro. Che non vuole dire apparecchiare a Matteo Messina Denaro la possibilità prima o poi di uscire dal carcere, sia chiaro. Ma nemmeno far dimettere lo Stato dalla funzione risocializzatrice e rieducatrice che gli è propria.