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Il futuro del Pd tra addii democristiani e sogni di laburismo

 
Bepi Martellotta

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Bepi Martellotta

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L’esito elettorale del 25 settembre sembra un paradosso: ha colpito in testa uno degli ultimi esponenti di quella storica fusione (Enrico Letta, scuola Andreatta, più centro che centrosinistra) e risvegliato l’anima degli ex comunisti, pronti a dare battaglia al governo più «nemico» di sempre

Sabato 31 Dicembre 2022, 14:11

«Se dobbiamo tornare indietro di 20 anni, allora è meglio chiudere bottega». Le parole dure rivolte da Pierluigi Castagnetti a Enrico Letta, accorso qualche giorno fa ad un convegno degli ex Ppi per placare le minacce di uscita dal Pd, raccontano bene cosa sta accadendo nella galassia dei Democratici in procinto di celebrare il loro congresso ri-fondativo. In sintesi, un pezzo di storia di quella che è stata la più impensabile fusione nell’arco costituzionale del Dopoguerra, ovvero l’unione dei comunisti e dei cattolici, rischia di scomparire definitivamente. E lo spauracchio diffuso tra gli ex Dc, poi diventati Ppi, Margherita, Ulivo e infine Pd, è quella di «morire socialdemocratici».

D’altra parte, la piega che sta prendendo la sfida congressuale per il dopo-Letta è sin troppo chiara. Da un lato Bonaccini, che non fa mistero di voler costruire in Italia quel partito laburista che non c’è mai stato intercettando tutta l’ala alla sinistra del Pd (dagli ex socialisti ai verdi-comunisti). Dall’altro la Schlein, ex «sardina» che, dismessi i sacchi a pelo davanti al Largo del Nazareno e completata la scalata nei piani alti dei Dem, dalla stessa «Emilia rossa» di Bonaccini è pronta a portare «linfa nuova» nel partito dei «vecchi» capibastone correntizi. Nessuna traccia, insomma, neanche l’ombra del Ppi fondato da don Sturzo nel ’19 e ricostituito dalle ceneri della Dc dopo il maremoto di Tangentopoli. Tanto meno qualche ombra di Ulivo, quell’albero che il paziente giardiniere Romano Prodi (scuola morotea) coltivava mettendo insieme l’anima cattolico-democristiana con la rifondazione degli ex Pci. E che pure, soprattutto in Puglia, ha dato vita a stagioni politiche non di poco conto, visto che proprio da quegli accordi strategici che misero attorno allo stesso tavolo D’Alema e Fioroni nacque la primavera pugliese.

Già, stagioni passate si dirà, che però – se si pensa a Berlinguer e Andreotti – hanno saputo cucire vestiti nuovi nei governi nazionali e sinanche in quelli regionali (chi mai avrebbe osato immaginare il voto degli ex Dc al comunista omosessuale Vendola nella Puglia di Tatarella?). Stagioni che oggi appaiono travolte dagli eventi. Da un lato i cattolici-moderati, finita l’era Berlusconi e rimasti orfani del manto centrista, navigano in acque agitate alla ricerca di un approdo. Dall’altro gli ex Pci, finita la sbornia Renzi e superata la diaspora con i bersaniani di Articolo Uno, vedono in Bonaccini e Schlein il possibile approdo riunificatore delle «sinistre» condannate al minoritarismo dal governo identitario della Meloni.

L’esito elettorale del 25 settembre sembra un paradosso: ha colpito in testa uno degli ultimi esponenti di quella storica fusione (Enrico Letta, scuola Andreatta, più centro che centrosinistra) e risvegliato l’anima degli ex comunisti, pronti a dare battaglia al governo più «nemico» di sempre, retto dalla destra degli ex An, guidato dalle vocazioni presidenzialiste (FdI) e federaliste (Lega), con l’ala più centrista (quel che resta di Forza Italia) in posizione minoritaria. Insomma, un risveglio modello «falce e martello», sebbene il Paese vada esattamente dalla parte opposta, almeno a guardare i numeri da prefisso telefonico che gli ex Pci raccolgono nelle urne.

E dunque, cosa farà davvero questo «Comitato costituente» che deve riscrivere la carta dei valori del Pd, quella scritta nel 2007 da Alfredo Reichlin e Pietro Scoppola e che disegnava un Pd «in cui culture politiche diverse si incontrano per elaborare idee nuove»?. Terrà conto dei desiderata di quelli (da Bindi a Castegnetti) che ancora portano il vessillo scudocrociato sul petto? Darà peso al bagaglio politico-culturale di cui proprio il leader uscente Letta (sorretto da un ex ministro come Franceschini) si faceva custode? O l’Assemblea nazionale del Pd, convocata il 22 gennaio proprio per decidere cosa fare del documento che sarà partorito dal Comitato e dare il via alle primarie, butterà definitivamente a mare la tradizione storica dei cattolici democratici per abbracciare il nuovo corso «labour» di Bonaccini, Schlein, Cuperlo etc.?.

Letta, chiamato direttamente in causa dagli ex Ppi, ha preso tempo. Occorre un «confronto approfondito» nel partito, ha detto, sulle sfide portate dalle novità degli ultimi anni: la guerra in Ucraina, la transizione digitale, quella ecologica, la povertà dilagante, la pandemia etc. Tutti temi che, ovviamente, non sono nella carta fondativa del Pd del 2007 (e in effetti, quel quindicennio fa sembra davvero un’altra era geologica). Sfide, queste, che oggi non si misurano più con un tycoon della Milano da bere che, salito su un predellino, è stato in grado di tenere sotto un unico vessillo (FI), per almeno vent’anni, il popolo delle famiglie Dc a Sud con l’industria rampante e liberista a Nord. Oggi la sfida è risalire gli scalini - e sono tanti - che separano l’anima cattocomunista del Paese (tenuta insieme dal Pd) dalla destra sociale ereditata dalla nuova «fiamma» Meloni. Salita sul podio più alto (quello del Governo) ma anche prima forza nel Paese «reale», quello cioè che non si misura solo con gli scranni in Parlamento.

Chissà se in questa sfida resterà ancora qualche traccia della vecchia, tanto amata e tanto odiata, «balena bianca». O se, come teme Castagnetti, gli ex Dc dovranno morire laburisti.

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