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Arrivati a tre repubbliche i problemi sembrano tornare e somigliarsi

 
Pino Donghi

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Pino Donghi

Arrivati a tre repubbliche i problemi sembrano tornare e somigliarsi

Per una volta, forse la prima – ma non c’è dubbio che quello appena insediatosi è un governo di «prime volte» - più delle nomine fanno discutere le denominazioni

Giovedì 03 Novembre 2022, 13:22

In principio era il verbo, e se le parole contano, i fatti dovrebbero conseguire. Per una volta, forse la prima – ma non c’è dubbio che quello appena insediatosi è un governo di «prime volte» - più delle nomine fanno discutere le denominazioni. Merito, sovranità, natalità, mare e made (in Italy)… l’impressione, almeno di chi scrive, è che si tratta di furbate semantiche, ma starò, staremo a vedere. E non perché mi iscrivo al partito del «lasciamoli lavorare»: lo faranno, a prescindere la mia o altrui condiscendenza.

D’altra parte, dall’altra parte, le opposizioni promettono opposizione, ci mancherebbe. Ma non basta, a nessuna: c’è chi la promette dura e anche durissima, chi la annuncia ferma, intransigente e/o responsabile: come se invece fosse possibile manifestarla molle, soffice, mobile e tollerante, o addirittura scriteriata. Altri avvertono che non faranno sconti: del resto chi non avrebbe pensato, dopo il 6 Gennaio, ad una opposizione in saldo?! Da giovanissimo pubblicitario, molti, molti anni fa, mi battevo con i colleghi anziani per eliminare dal documento di presentazione al cliente l’insostituibile premessa «la comunicazione sarà essenziale ed efficace…»: ne avremmo potuto proporre una arzigogolata e inutile? Tautologie. Siamo un paese in cui si parla molto, siamo il paese (ma non il solo) in cui attraversare i binari è «severamente vietato»: l’implicito è che se fosse vietato e basta in verità sarebbe quasi permesso, meglio rafforzare. Le traduzioni in inglese di qualsiasi paragrafo italiano sono, mediamente, un 20% più brevi: sarà un caso? In questi giorni, sulla cronaca di Roma di qualche quotidiano leggo titoli che annunciano la sospensione dell’occupazione della facoltà di Scienze Politiche della Sapienza per le festività d’inizio Novembre: anche la protesta fa il ponte. E fa tenerezza. Quando alla Sapienza ci andavo io – primo a.a. ‘76-’77, un periodo complicato – seguivo e partecipavo dei tumultuosi collettivi di quegli anni di piombo, ma anche le lezioni di Filosofia del Linguaggio di Tullio De Mauro: alle 8 del mattino di ogni Lunedì. Una di quelle mattine, a fine lezione, De Mauro ci invitò a tornare puntuali la settimana seguente; con timidezza – Tullio De Mauro era uno che metteva qualche soggezione – gli annunciai che, con tutta probabilità, l’università sarebbe stata occupata: «Giovanotto! – mi rispose – si ricordi che la rivoluzione non si è mai svegliata prima di mezzogiorno. Vi aspetto settimana prossima, puntuali, alle 8!». Forse facevamo tenerezza anche noi, forse anche a lui. Per lavoro ci siamo incontrati di nuovo, molti anni dopo, e mi raccontò, sorridendo, che nel ‘68, quando era a Palermo, e poi a Roma tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio dei ruggenti ‘80, non aveva mai peso un’ora di lezione. Anche le parole d’ordine della rivoluzione vanno declinate a tempo debito.

«Fatti, non parole» è stato lo slogan d’obbligo per tutti i partiti, per tutta la prima Repubblica: sufficientemente generico, voleva dire tutto e niente e, puntualmente, alle parole non seguivano grandi accadimenti: raramente, comunque, quelli annunciati. Poi, dalla «discesa in campo» in poi è cambiato qualche lemma, e parecchio anche i discorsi, e almeno di quello ce n’era bisogno. Ma non è bastato: il «vaffa» ne è conseguito, per tutti e da tutti. È stato un grande vaffa collettivo, rigorosamente mediatico, a suo modo democratico. Nei fatti, però, arrivati a tre Repubbliche, i problemi sembrano tornare e somigliarsi: il Sud, la disoccupazione giovanile, di nuovo l’inflazione, chi paga le tasse… Nella cacofonia, e a tratti anche nella cafonaggine attuale, ambedue infinitamente amplificate dall’ipertrofia social, urgerebbe in effetti qualche appiglio concreto. Per uno che di comunicazione e nella comunicazione è vissuto e ha lavorato per già una quarantina d’anni, può sembrare paradossale e antistorico, ma la conferma di qualche fatto coniugato alle parole di riferimento rappresenterebbe una novità interessante, un imprevisto capace di eccitare.

Qualche governo fa, uno simile all’attuale, licenziò una campagna informativa promozionale che timbrava con «Fatto!» una serie di provvedimenti, normative, decisioni, che davano seguito ad alcune promesse elettorali. Ma era solo comunicazione, anche quella volta. Il timore di molti è che, con il ritorno di parole dell’altro secolo (del resto, a inizio d’anno, dal ‘900 è rigurgitata una guerra d’antan) ne conseguano i medesimi fatti, o comunque troppo simili per essere sottovalutati. Non lo faremo. Sicché il timore maggiore è che non consegua alcunché e che all’ennesimo annuncio di una politica del fare e di un’opposizione concreta, non seguano altro che vecchie parole dentro vecchi e nuovi format. Con qualche soddisfazione giornalistica: l’infinito chiacchiericcio dei talk show nutrendosi meglio dell’esegesi di ciò che si sarebbe detto più che della verifica di quel che (non) è stato fatto.

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