Temuto, biasimato, previsto. Alla fine l’astensionismo ha vinto di nuovo le elezioni confermandosi il primo partito italiano. Anzi, senza fare campagna elettorale diretta perché l’hanno fatta gli «avversari», ha rafforzato le sue posizioni migliorando di quasi il 10 per cento il già brillante risultato ottenuto alle Politiche del 2018.
Tradotto in persone vuol dire che non sono andati alle urne 16 milioni e mezzo di italiani, cioè più del doppio dei 7,3 milioni che hanno scelto Fratelli d’Italia.
L’astensionismo è stato visto sempre come un problema, ma solo all’indomani delle tornate elettorali, poi il tema è stato archiviato nei cassetti delle buone intenzioni.
Quando si parla di astensione, cioè di una rinuncia volontaria a votare, si dimentica che anche questa è una manifestazione di volontà. Insieme a sì, no, scheda bianca e scheda nulla c’è anche l’astensione. Certo, andrebbe formalmente perfezionata andando al seggio e facendo mettere a verbale la propria rinuncia. Ma non si può pretendere una simile maturità politica. Anche perché i numeri dimostrano che l’astensionismo è inversamente proporzionale al livello economico e sociale: dove ci sono maggiore ricchezza e migliore qualità di vita si vota di più.
Fra gli astensionisti ci sono anche gli «involontari»: rinunciano al voto perché hanno gravi difficoltà a muoversi o a raggiungere i seggi. Si calcola che siano oltre 4 milioni, cui vanno aggiunti i 5 milioni scarsi di coloro che sono lontani dal comune di residenza. Fra questi moltissimi giovani. Attenzione: entrambi i numeri sono destinati a crescere per via dell’invecchiamento della popolazione e per la sempre più marcata mobilità lavorativa o di studio.
Fra gli astensionisti «volontari» sono da annoverare le vittime del «voto inutile», cioè coloro che sono rassegnati alla sconfitta del proprio partito e che ritengono quindi non serva andare ai seggi. Ci sono poi i delusi, cioè chi non si sente rappresentato da nessuno e preferisce restare a casa. Molto vicini a loro i «lontani», cioè coloro che hanno scelto di non occuparsi di politica poiché pensano che «tanto decidono sempre gli altri». Sono convinti dell’irrilevanza dei politici nostrani rispetto allo strapotere di soggetti esterni (potentati economici, potenze nucleari, grande criminalità).
Il paradosso in tutto questo è che più cresce l’astensionismo, più si rafforzano i partiti. La ragione sta nel fatto che le percentuali sono calcolate sulla base dei voti validi, cioè rispetto alle persone che sono andate alle urne. Un esempio? Se un partito ottiene 100 voti rispetto a mille votanti otterrà una percentuale del 10%; se invece ottiene sempre 100 voti ma rispetto a 500 votanti, la sua percentuale salirà al 20%. I dati dell’altro giorno, per esempio, mostrano come lo schieramento di centrodestra abbia avuto un numero di voti analogo a quello della precedente consultazione (12.152.345 contro gli attuali 12.289.518) ma che ha prodotto risultati completamente diversi in termini percentuali e quindi di seggi, che poi è il dato che permette di governare.
Questo meccanismo fa comodo ai partiti, che così controllano sempre meglio le «scelte» popolari. A oggi i cittadini sono ingabbiati nelle volontà delle segreterie e possono solo determinare il partito o la coalizione vincitori. Stop. Nulla possono dire su chi di quella formazione può rappresentarli meglio. Un percorso obbligato aggravato dalla scelta di tagliare il numero dei parlamentari e quindi con la necessità per i partiti di «blindare» i minori seggi disponibili.
Se davvero il nuovo governo volesse mitigare l’astensionismo e favorire un riavvicinamento dei cittadini alla politica dovrebbe innanzitutto cambiare la legge elettorale. Ma deve farlo con intento trasparente, non con l’obiettivo di fregare l’avversario, come è stato fino a oggi. Sulla scheda i cittadini devono poter scegliere il nome del candidato preferito, non essere costretti a votare in automatico il primo della lista. Si chiama sistema proporzionale con le preferenze e garantisce una migliore rappresentatività, ma allo stesso tempo – si dice – non favorisce la stabilità dei governi, oltre a facilitare il «voto di scambio». L’esperienza ha dimostrato però che in Italia la governabilità resta affidata agli umori e al senso di responsabilità del Parlamento: negli ultimi cinque anni si sono succedute più maggioranze, in un guazzabuglio di composizioni diverse e la legislatura si è conclusa anticipatamente.
Per combattere l’astensionismo occorre intervenire molto sul piano culturale ribaltando il concetto secondo cui la politica è affare esclusivo dei partiti e dei loro dirigenti. Proprio come spiega l’etimologia del termine, la politica è ciò che appartiene alla vita comune. Dunque non è cosa loro, ma cosa di tutti.