I grandi temi dei nostri giorni, quello che siamo oggi, le tante crisi che attraversiamo e la paura del futuro; la voglia comunque di andare avanti. Tutto questo – e tanto altro – è in Tasmania (Einaudi, pp. 272, euro 19.50), l’ultimo libro di Paolo Giordano.
L’autore sarà martedì prossimo alle 20 nei Giardini Pensili di Presicce (in provincia di Lecce), ospite del festival «Armonia. Narrazioni in terra d’Otranto» (ideato e organizzato dalla Libreria Idrusa di Alessano e dall’Associazione NarrAzioni), per parlare del suo romanzo insieme allo scrittore Mario Desiati, direttore artistico della manifestazione letteraria.
Giordano, ha scritto un libro sul presente ma soprattutto sull’idea di futuro. Perché?
«L’idea di futuro è messa in discussione o modificata da molti grandi eventi negli ultimi anni. Il libro attraversa gli anni degli attacchi terroristici in Europa, ha come retroterra la pandemia, e parla molto di crisi climatica che purtroppo in questi giorni in Italia è tornata a essere tristemente attuale. Tutti questi macro eventi che ci coinvolgono e ci avvolgono sembra che abbiano scardinato l’idea facile di futuro che esisteva fino a poco tempo fa. Tasmania è anche una specie di esperienza in tal senso, cioè come si vive quando si perde l’idea che il futuro sia una continuazione coerente del passato».
È un libro autobiografico?
«Sì, ma più che altro gioca con l’autobiografia, gioca con il confine tra ciò che è realmente autobiografico e ciò che è inventato e lo fa in un modo quasi spregiudicato. È autobiografismo molto esibito e proprio per il fatto di essere così esibito in realtà è un’invenzione letteraria».
«Tasmania» è molto diverso anche stilisticamente rispetto ai suoi precedenti, molto più tecnico. Quanto studio c’è dietro?
«Io studio sempre molto, a volte questa cosa è più evidente altre meno. In Tasmania tutto questo è in superficie e viene anche fatta vedere la parte di ricerca. La differenza è che volevo fosse un libro molto ibrido, un romanzo, però al cui interno ci sono delle interviste, brevi saggi, l’autobiografia, il ricordo. Ci sono varie forme di scrittura che negli anni ho praticato una separata dall’altra, e che a un certo punto mi sono detto ma perché non può diventare tutto romanzo? È un libro molto vicino a quello che io penso».
Lei ha esordito con un romanzo, «La solitudine dei numeri primi», definito all’unanimità un esordio folgorante, che le valse anche il Premio Strega nel 2008. Com’è cambiato Paolo Giordano da allora?
«Con quindici anni in più. La Solitudine è stato scritto ed è uscito sul margine della giovinezza per me, quindi tutto era molto diverso, nuovo, anche paradossalmente deresponsabilizzato, e nel frattempo al di là della vita personale, la scrittura è diventata una professione. Quello che mi piace, che già intravedevo allora, ed è il motivo per cui trovandomi a un bivio in quel momento tra seguire la carriera scientifica e buttarmi anche in questa che poteva non diventare una carriera, è che il percorso della scrittura ha il privilegio di darti moltissimi aspetti di novità ogni volta, di grande esplorazione, che continua ancora oggi».
Martedì sarà al Festival dell’Armonia. Cosa pensa dei festival letterari? Servono agli autori e ai lettori?
«Siamo in un momento di assoluta riscoperta delle manifestazioni in pubblico. Prima della pandemia in molti abbiamo quasi sentito un senso di saturazione, di eccessiva offerta, profusione di festival e rassegne in giro per l’Italia. Sembrava tutto un po’ meccanico. Poi la pandemia è stata un vero shock. Io personalmente dal dopo assaporo molto di più questi momenti di collettività fisica. Forse anche rispetto a quello che sta accadendo, alla temperie politica, al dibattito così aggressivo. Tutti i momenti in cui ci sono delle condivisioni più alte, più distese, che ti portano a pensare meglio come la letteratura, le stiamo apprezzando meglio ora».